“Io sono (tu sei, egli è, noi siamo, voi siete, essi sono) architettura vivente”. E per chi proprio voleva insistere nel progetto avevamo suggerito: “l’unica cosa da progettare è la nostra vita. E basta”.
Adolfo Natalini – Com’era ancora bella l’architettura nel 1966, 1977.
Cristiano Toraldo di Francia era nato durante la guerra a Firenze, figlio di un fisico teorico e di una mamma molto impegnata a cercare da mangiare per il piccolo – che a causa della sua denutrizione manterrà per tutta la vita dei lineamenti infantili, motivo per cui ha sempre lasciato crescere lunghi baffi o la barba. Imparentato con Tristano Codignola e quindi con Roberto Calasso, “da bambini si andava a fare le zingarate”, crebbe con gli ideali di Giustizia e Libertà, quelli della tradizione liberalsocialista fondata dai fratelli fiorentini Carlo e Nello Rosselli. Da adolescente ebbe una crisi mistica, in ossequio al suo nome, ma poi si iscrisse ad Architettura seguendo i corsi dei tre Leonardo: Benevolo, Ricci e Savioli. L’alluvione del 1966 fu complice dell’apertura di uno studio in un posto più in alto, piazza Bellosguardo dove in passato lavorarono anche Galileo Galilei, Ugo Foscolo ed Eugenio Montale. Invece Toraldo, che per arrotondare faceva il fotografo di moda per le case autoctone come Ferragamo, fonda insieme con il suo compagno di studi pistoiese Adolfo Natalini il Superstudio. Volendo fare architettura a tutti i costi, anche senza committenti, si vestono con il camice bianco e con una possente dose di ironia. La presenza di un collegio femminile americano attiguo allo studio e l’aria libertaria (e libertina) del ’68 fecero il resto.
Il ciclo del Monumento Continuo, una serie di collage di ieratici parallelepipedi vetrati che si sovrapponevano con indifferenza a metropoli e paesaggi esotici, conobbe un’immediata fortuna e furono pubblicati in Giappone, USA, Inghilterra, e in Italia dapprima su “Domus” e poi sulla “Casabella” di Alessandro Mendini. Ancora oggi conservano una freschezza tale da essere scopiazzati da architetti e grafici di mezzo mondo. Insieme ai gruppi fiorentini Archizoom, 9999, Pettena, Buti, Ziggurat e ad altri compagni di strada come Ugo La Pietra finirono al MoMA nel 1972 per la grande mostra “Italy: the New Domestic Landscape” che usava il progetto non come ingenua fuga verso l’utopia, ma come strumento critico. Iniziarono i pellegrinaggi al Bellosguardo di giovani fan come Rem Koolhaas, Daniel Libeskind, Kenneth Frampton.
Sciolto il Superstudio, Toraldo iniziò un suo percorso professionale autonomo dapprima in Toscana dove realizzò molti interni, la stazione Statuto, la pensilina della Stazione di Firenze – poi demolita da Matteo Renzi da sindaco –, quindi, dopo il trasferimento a Filottrano con Lorena Luccioni, nelle Marche dove ha realizzato l’autostazione delle corriere di Macerata o il grande cinema multiplex di Pesaro. Docente ad Ascoli Piceno – dove non riuscì mai a diventare professore ordinario, forse per eccesso di cortesia nei giochi accademici –, era amatissimo dagli studenti perché insegnava la sua curiosità progettuale verso i confini fra l’architettura, il design, la musica e soprattutto la moda, con abiti abitabili del tutto sperimentali che gli ricordavano quelli posticci indossati durante la guerra, vale a dire pieni di potenzialità. Non era difficile incontrare ai suoi corsi ospiti a sorpresa come Dario Bartolini degli Archizoom (gruppo in cui Cristiano rischiò di aderire se non avesse incontrato Adolfo), sperimentatore del dressing design insieme alla moglie Lucia Morozzi.
Nelle Marche Cristiano era insomma un punto di riferimento e un ponte intellettuale con l’esterno per tutti gli studiosi e ricercatori, universitari e no, di architettura e design e la sua direzione di “Mappe” era un fatto naturale. Del resto la sua origine aristocratica aveva favorito o indotto la sua capacità diplomatica, utilissima per tenere le fila delle attività degli ex Superstudio. Quando Gilles Clément venne a Macerata nel 2007, Cristiano era in prima fila, da grande appassionato di erbe spontanee che amava conoscere e raccogliere nei dintorni di Filottrano. Da quell’incontro sortirà un’altra ricerca sul paesaggio e i suoi “giardini pensierosi”. Nel 2016 una mostra sul Superstudio a cura di Gabriele Mastrigli è stata organizzata al MAXXI di Roma e in concomitanza fu pubblicato il volume delle Opere complete del gruppo, frutto di un lavoro di anni portato avanti con grande pazienza e cura da Gabriele stesso insieme alla redazione Quodlibet; l’anno successivo il Museo ex Pescheria di Pesaro organizzò una mostra della sua ricerca sulla moda dal titolo del suo ultimo libro Ri-vestire e chi scrive è stato volentieri di supporto come aiuto e autista per la mostra nell’unico museo di arte contemporanea delle Marche che fu un piccolo punto di arrivo, condiviso con tutti gli studenti, collaboratori e interlocutori fra cui anche imprenditori locali. Significativamente aveva scelto una poesia di Antonio Machado come esergo del suo ultimo libro, che ora ci appare come un concentrato genuino della sua aurea modestia, della sua grazia artistica di intellettuale cosmopolita: “Ma cerca nel tuo specchio l’altro, / l’altro che vien con te. / Cerca specchio nel tuo prossimo; / ma che non sia per rasarti, / né per tingerti i capelli”. Si è spento il 30 luglio 2019, per una rara malattia, a 77 anni.
Adolfo Natalini era un figlio della seconda guerra mondiale. Coetaneo di Cristiano, come lui era nato nel 1941. Secondo Leonardo Sciascia questo è il vero segreto dell’amicizia: essere coetanei, attraversare ogni fase della vita insieme. Anche se i due architetti in questione non potevano essere più diversi. Proprio in occasione della scomparsa dell’amico lo scorso luglio Natalini lo aveva ricordato citando la differenza di origini: lui di campagna, toscanaccio e più conservatore; Toraldo invece cittadino di buona famiglia, cosmopolita e progressista, uno più teso verso l’architettura l’altro verso il design, uno pittore l’altro fotografo, uno lettore di Papini e Soffici, l’altro di letture internazionali, uno con una famiglia tradizionale l’altro con una allargata e più moderna, uno seppellito nella cappella di famiglia disegnata da sé stesso, l’altro cremato ecc. Entrambi però portavano il basco come cappello, di norma, e la loro amicizia non si è mai interrotta. Oltre agli studi di architettura furono uniti da quella residenza di piazza Bellosguardo a seguito della grande alluvione del ’66. Dopo aver perso infatti i primi disegni per la furia delle acque, decisero di trovarsi un posto più elevato: la collina di Bellosguardo, che Ottone Rosai descriveva così in Via Toscanella (Vallecchi, 1930): “La collina di Bellosguardo sempre coperta di verde domina poeticamente e sembra cantare in eterno le grazie del Foscolo. I baracconi del tiro a segno e le barche volanti sostano di quando in quando rincattucciate negli angoli e i ragazzi del rione vanno a far la loro festa di tutti i pomeriggi […] Lassù è l’illusione del paradiso. Uno spiazzo seguito e definito da una ventina di case dignitose, quasi austere, che sembrano abitate da cittadini fantastici, invisibili, tanto è il silenzio e la solitudine”. Descrizione profetica: ci appaiono infatti esattamente fantastici e invisibili i collage del Monumento Continuo, ieratici e austeri ma sempre caratterizzati da silenzio e solitudine. Una solitudine che Natalini ha spesso lamentato a Firenze e denunciato nel caso dell’amico Toraldo, specie dopo le polemiche per la pensilina demolita. Natalini aveva più anticorpi, un’ironia verace. Forse perché era di Pistoia, come Giovanni Michelucci, e aveva la pelle più dura, ma non è il caso di insistere su queste lamentazioni perché il regalo più bello che il Superstudio ha lasciato all’architettura è la grande allegria visiva e la grandissima freschezza compositiva che attirò a Firenze i giovanissimi Rem Koolhaas, Bernard Tschumi, Daniel Libeskind.
Non ci sono dubbi sul fatto che il Superstudio fosse un gruppo felice come quello coevo dei Beatles in cui non è chiaro se John Lennon fosse Natalini, McCartney fosse babyface Toraldo (probabilmente il contrario), sicuramente George Harrison era Gian Piero Frassinelli con la sua predilezione verso l’antropologia. In ogni caso va ricordato che Natalini è stato oggetto di revival per gli anni dell’architettura radicale e per la sua produzione successiva. Quella in cui invertì la rotta verso un’architettura più anonima, più fisica, più durevole perché priva di stile e più attenta a costruire legami indiretti con la storia come la banca di Alzate Brianza (con Frassinelli) o l’edificio di Zola Pedrosa. Una delle sue opere preferite era l’edificio universitario di Siena per l’attenzione verso la tradizione vernacolare: l’argomento era stato anche l’inizio della sua carriera accademica quando Natalini si scelse uno studente molto particolare come assistente ai suoi corsi di plastica ornamentale dedicata alla cultura materiale extraurbana: l’oggetto di studio era la vita quotidiana di un contadino di Fiesole, Zeno Fiaschi. Il suo assistente era Michele De Lucchi, il grande designer che poi andrà a Milano con una lettera di raccomandazione del maestro fiorentino nello studio di Ettore Sottsass e produrrà la lampada più celebre del design italiano del ’900, la Tolomeo, che Natalini ha sempre conservato sulla sua scrivania dello studio al Salviatino.
Col passare degli anni le architetture dello studio Natalini Architetti si sono sempre di più rarefatte, i riferimenti storici sono diventati sempre più astratti. Ne sono prova le due grandi opere che lascia alla città: la scala agli Uffizi e il Museo dell’Opera del Duomo, realizzato insieme con lo studio Guicciardini Magni, e i grandi capolavori di Arnolfo di Cambio, Donatello, Tino di Camaino, Nanni di Banco ecc. Tutti i protagonisti cioè della stagione prebrunelleschiana di Santa Maria del Fiore. È proprio in questa epoca alto-medievale che troviamo la cifra di Natalini che Giovanni Klaus Koenig chiamava non a caso Adolfo da Pistoia: nato pittore, divenuto “architectore”, instancabile disegnatore nonché latore di una bottega artistica che ha formato moltissimi architetti con tanti progetti anche in Olanda e Germania, avvertendoli del pericolo di lasciarsi andare alla ricerca di un’identità stilistica troppo marcata. Si era dotato per questo di tutta la pazienza necessaria a un capomastro medievale per poter portare a termine cantieri dalla durata infinita come quelli di Fidenza (la città del suo amico Vittorio Savi), di Ferrara, del Museo dell’Opera del Duomo o della Prefettura di Pistoia, soffrendone un po’ e resistendo protetto dalle sue abitudini come il pranzo dal Natalino in Borgo degli Albizi – prendeva sempre maccheroni alla garfagnina, gli faceva pensare all’Ariosto (di cui conosceva a memoria interi canti dell’Orlando furioso), che era stato governatore per gli Estensi proprio della Garfagnana. Altra opera travagliata per la lunghissima durata è il bellissimo cimitero dell’Antella, che lui ha iniziato appena laureato. Lì ha seppellito i suoi genitori e sua moglie Frances che purtroppo raggiungerà ora per sempre, lasciando la figlia Arabella e l’amatissimo nipote Arno, appena sei mesi dopo Cristiano.