Montepulciano 9 luglio 1966
Macerata 20 dicembre 2023
È mancato poco prima di Natale, come Robert Walser, improvvisamente assistito solo dalla sua compagna Milena Ibro e dal figlio adolescente Milo. Gino Giometti era nato a Montepulciano il 9 luglio 1964, si era iscritto a filosofia all’Università di Siena dove aveva amato di più il corso di logica del professor Claudio Pizzi di quelli, certo più affollati, di Mario Tronti o Franco Fortini. Nel 1984 si trasferì a Macerata per seguire un filosofo allora al debutto della sua carriera universitaria, Giorgio Agamben, con cui lo studio sconfinò immediatamente nella vita in comune insieme con un gruppo di studenti marchigiani (Stefano Verdicchio, Elettra Stimilli, Alejandro Marcaccio, Daniele Garbuglia e altri) articolata in lunghe notti di discussioni, di seminari su Spinoza tenuti sopra la spiaggia di San Michele sul Monte Conero quando non c’erano ancora stabilimenti ma solo capanni, di viaggi collettivi a Parigi. Resta una prima traccia di queste esperienze seminali nella rivista “Marka” curata da Clio Pizzingrilli ad Ascoli Piceno. Il supplemento al numero 26 del 1989 conteneva infatti alcuni testi inediti di Walser «venuti alla luce dopo la morte dello scrittore» tradotti da Gino. A corredo del volume c’erano anche un saggio di Ginevra Bompiani, uno di Gianni Celati e, oltre a quello di Pizzingrilli, La comunità che viene di Agamben che l’anno dopo darà il titolo a un saggio pubblicato da Einaudi 1990. Un paragrafo di quel libro si intitolava Quodlibet, che sarà il nome delle edizioni fondate nel 1993, mentre Agamben lascia Macerata per andare a insegnare all’Università di Verona.
«Ciò che piace» termine latino valido al contempo in filosofia e in musica e infatti il contrabbassista Stefano Scodanibbio dedicava allora un brano per viola e violoncello con questo nome ad Agamben e alla sua «comunità di perdigiorno, o meglio perdinotte, Taugenichts, toons… quella che si animava in quelle serate». Gino, Stefano e gli altri si erano accorti che più di proposte di articoli per una rivista veniva loro naturale proporre libri, nuovi o da ripescare; tanto valeva allora mettere in piedi una casa editrice che avesse come logo la figura dello stesso Walser. Co-diretta da Giometti e Verdicchio, i primi due titoli furono Una cena elegante, primo testo dello scrittore svizzero tradotto in italiano da Aloisio Rendi trent’anni prima da Lerici, e Bartleby, la formula della creazione di Gilles Deleuze e Agamben. Le analogie tra alcuni personaggi walseriani e quello di Herman Melville, il filo rosso tra il servitore che scompare nell’ingranaggio sociale come una minuscola rotellina (lo scrivano) e il vagabondo che non si lascia fossilizzare in un unico ambiente come nella Passeggiata era teso. Nel 1994 mentre Celati traduceva Bartleby lo scrivano per Feltrinelli, con la nota formula “avrei preferenza di no”, Giometti traduceva Pezzi in prosa di Walser popolati di figure angoscianti come L’assassina o Schwendimann oppure capaci di una spensierata felicità come lo sbarbatello dell’ultimo racconto, Non ho nulla.
Del resto Gino era così: capace di imporre una distanza insormontabile fra sé e il mondo, ma anche di piacevoli conversazioni con avventori casuali e no dello storico locale maceratese il Pozzo, quando ancora poteva fumare all’interno le sue Gauloises: tra questi l’editore di Liberilibri, Aldo Canovari, il musicista Stefano Scodanibbio o un giovanissimo Emanuele Coccia. Accidentalmente altezzoso, Gino era seduttivo per via della sua eleganza di adorabile tiratardi. Nel 1995 veniva pubblicata la sua tesi di laurea discussa con Agamben, Martin Heidegger. Filosofia della traduzione, che rileggeva tutta l’opera del filosofo tedesco alla luce di questa attività che a suo dire non era solo una funzione bensì una forma autonoma di conoscenza. Lavorando soprattutto di notte, talvolta ascoltando la cantante Sade, curò due testi di Antoine Berman, il traduttologo che sentiva più affine, La prova dell’estraneo. Cultura e traduzione nella Germania romantica (1997) e poi La traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza (2003) dialogando a distanza anche con Michele Ranchetti, portando avanti lo studio in quest’ambito con un dottorato a Torino sotto la direzione di Gianni Vattimo per poi rinunciare alla carriera universitaria senza alcun rimpianto.
Nel 2002, quando mi ero avvicinato alla Quodlibet dopo la laurea a Venezia, ebbi l’occasione di contribuire alla nuova edizione di un libro di culto firmato a quattro mani da Carmelo Bene e Gilles Deleuze, Sovrapposizioni, scovando le fotografie inedite della prima del Riccardo III nell’archivio del Teatro La Pergola di Firenze.
Gino riteneva essere quello il saggio più brillante di Deleuze, Un manifesto di meno, per via della sua teoria dell’uso minore, la variazione continua: «Ciò che è interessante non è mai il modo in cui qualcuno comincia o finisce. L’interessante è in mezzo, ciò che succede nel mezzo […] E il mezzo, non vuol dire affatto essere nel proprio tempo, essere del proprio tempo, essere storico; al contrario. È ciò per cui i tempi più diversi comunicano». Ecco, in estrema sintesi, il senso del suo essere editore: dialogare con Jacob Taubes, Alois Riegl o Matteo Ricci. Un aspetto fondamentale del suo lavoro consisteva nella stesura di molte quarte di copertina, momento di sintesi o meglio di ecfrasi, come questa del 2006: «Junkspace è una nuova categoria del pensiero (nuova come il “Terzo paesaggio” di Gilles Clément) che Koolhaas, maestro di similitudini, introduce con lirico cinismo per aprirci gli occhi sullo spazio in cui viviamo, e forse sullo spazio in generale». Non amava presenziare o apparire, eppure prese parte a molte fiere del libro, soprattutto minori come quella sull’editoria di progetto “Bobi Bazlen” che alcuni anni dal 2008 in poi ho organizzato a Trieste insieme con Giovanni Damiani e alla prima edizione del Demanio marittimo km 278 del 2011.
Poi, mentre la casa editrice stava crescendo, aprendo una sede a Roma e aggiungendo nuove collane di narrativa come Compagnia Extra diretta da Ermanno Cavazzoni (con Celati sullo sfondo) e di architettura grazie dapprima alla coedizione con la rivista “Abitare” diretta allora da Stefano Boeri e le prime collane di cui ancora mi occupo, nel 2013 Gino lascia Quodlibet dopo vent’anni di condirezione. Insieme con Danni Antonello – libraio antiquario, poeta e traduttore veneto trasferito a Macerata – fonda la Giometti&Antonello che per un decennio ha portato avanti un ambizioso programma nonostante la prematura scomparsa di Antonello nel 2017. «In un’epoca in cui la produzione e il consumo di testi conosce un ampliamento senza precedenti, ma al contempo l’autorevolezza di autori e opere vacilla in modo quasi irreversibile e la critica tradizionale e le accademie hanno totalmente smarrito la loro funzione di filtro e di indirizzo, il ruolo dell’editore diviene quanto mai centrale […] L’editore deve trovare il coraggio di riproporsi come guida». Non a caso il primo titolo era quello di Kurt Wolff, l’editore di Kafka, Georg Trakl e Walser, «una sorta di vademecum per chiunque ancora oggi voglia intraprendere questo mestiere». Aiutato negli ultimi tempi soprattutto da Edoardo Manuel Salvioni, in pochi anni Giometti&Antonello ha pubblicato circa sessanta titoli prevalentemente di carattere letterario e poetico, “pagine postume pubblicate in vita”, da Georg Büchner a Dylan Thomas passando per James Joyce, Osip Mandel’štam, Laurent de Sutter, Milena Jesenská, Carlo Belli, Marcello Barlocco, Nanni Cagnone, il chiaravallese Massimo Ferretti, l’amato Trakl e molti altri. Deliziosa è stata l’incursione nell’architettura con gli inediti di Adolf Loos raccolti in Nudità nel 2021. Recentemente aveva assunto una posizione intransigente verso il “Leviatano sanitario” ovvero le politiche del green pass che hanno stravolto la vita quotidiana di chiunque, riavvicinandosi ad Agamben che pure ha pubblicato. Gli scritti di Gino, se si eccettua la tesi di laurea, sono quasi tutti brevi come la maggior parte della produzione dello scrittore svizzero, ma come aveva notato Stefan Zweig «nell’arte non sono le dimensioni che sono determinanti, ma la perfezione interiore». Un’irreparabile perdita per l’editoria italiana e per Macerata nello stesso anno della morte di Canovari, ma anche per chi scrive – che ha avuto la fortuna di accompagnarlo per un bel tratto di strada – e per chi ha beneficiato dei suoi preziosi suggerimenti, assist bazleniani, così come gli attaccanti che possono tirare in porta perché ricevono un cross preciso dall’ala, il suo ruolo preferito da giovane giocatore nei brulli campetti poliziani. Gino Giometti ha inseguito un destino non sempre lineare eppure senza mai perdersi veramente, come nella poesia walseriana Troppo filosofico: «mi scopro risata, tristezza profonda, selvatico intrecciatore di discorsi».
A circa un mese dalla sua scomparsa, il 6 febbraio 2024, la rivista online “Il Tascabile” gli ha dedicato uno speciale ricordo, raccogliendo testimonianze di amici, autori e colleghi, a cura di Daniele Giglioli e di chi scrive.