Da giovane ho fatto parte di un gruppo che si chiamava Residenza (fu anche il titolo di una nostra trasmissione radiofonica): lo ispirava un grande poeta, Franco Scataglini, nel cui spirito socratico c’era la convinzione, ben fondata, che ogni luogo, anche il più derelitto, potesse divenire universale se legato alla autenticità di una esperienza. Non ho mai cambiato idea, dunque non è che io ami le Marche perché sono belle o perché ci sono nato e ci vivo. Non posso nemmeno dire di amarle tout court: più semplicemente, sono legato a certi luoghi perché li sento parte viva della mia esistenza.
Campo degli Ebrei (Ancona)
Ci si andava saltando le lezioni del liceo, era una specie di scampagnata urbana e non so se ci rendessimo conto del perfetto connubio di storia e natura, tra il mare su cui scivolano, dal ciglione a precipizio, i vecchi cippi a fungo e il cielo che sembra abbassarsi sulle lapidi e le pietre tombali rovesciate nell’erba come pecore di un gregge a riposo. “El cimitero abrevo/ portato via dal mare”, scrisse il mio maestro, come presagendo l’ala fredda di un Angelus novus, cioè di un moto che va a ritroso nello spazio/tempo e non si sa se intanto lo distrugga o lo redima.
Palazzo della Signoria (Jesi)
Non c’è niente da fare, il mio gusto è irrimediabilmente tradizionalista, classicista (un amico dice che è un gusto teo-con, un altro, meno generoso, dice addirittura Swarovski). Resta il fatto che di rado ho avuto la precisa sensazione di abitare uno spazio e di abitarlo con altrettanta “naturalezza” (le virgolette sono d’obbligo, ovviamente) come in un simile prodigio umanistico. C’è di più, per uno abituato come me alla luce artificiale: là dentro, dove pure è ospitata una grande biblioteca civica, io non ne ho mai sentito il bisogno.
Fornace Volponi (Urbino)
Urbino è così aggettante, avvenente, da essere ricattatoria nel suo magnetismo, perciò a chi in macchina risale gli ultimi tornanti dopo il ponte romano c’è caso sfugga un prezioso vestigio di archeologia industriale, la fornace (la sua rovina a cielo aperto) appartenuta alla famiglia dello scrittore Paolo Volponi, couche di maestri fornaciai che la produzione in serie già negli anni sessanta avrebbe distrutto. (Tale è l’argomento del romanzo Il lanciatore di giavellotto, il meno noto e il più segreto di un altro mio maestro).
Lungomare L. Da Vinci (Senigallia)
Amo il mare da lontano, non amo affatto la vita di spiaggia e i suoi affollamenti. Ma può attirarmi, come in questo caso, la vastità degli spazi e dell’arenile, la presenza costante del vento e di colori meno accesi che altrove anche nel pieno della stagione. Qui resiste il bar/trattoria su pedana di legno non ancora sostituito dalla pretenziosa istallazione coi sedili a trespolo e la musica più orribile a palla: non è obbligatorio andarsene smaltita la consumazione, si possono fare le cose più umane come sostare, conversare o leggere in pace, persino.