Nel 2016 esponemmo al MAXXI una mostra intitolata The Japanese House e dedicata alla straordinaria e sconfinata produzione dell’architettura giapponese in termini di case unifamiliari di ogni genere: grandi, piccole, sempre più piccole, smontabili, trasparenti, introverse, popolate da poesie, da zolle di terra, da strane strutture sulle quali sbattere la testa. Una delle ragioni per la mostra, a parte questioni più storiche e l’incredibile qualità degli autori di quelle case (c’erano cinque o sei Pritzker Prize), era il simmetrico senso di insoddisfazione verso la situazione italiana, dove la “casa unifamiliare” è stata da sempre tenuta al margine della cultura architettonica più ufficiale. Agli architetti delle generazioni intorno alla mia la parola casa fa venire in mente i grandi interventi dell’edilizia popolare, le ville opulente e di cattivo gusto, oppure le infinite casette kitsch della città diffusa, amate dagli abitanti e odiate dalla cultura urbanistica e dagli architetti. Per quanto possibile, col tempo abbiamo cercato di smantellare quei pregiudizi e di far rientrare nella lista dei temi politicamente corretti anche le case unifamiliari di piccola dimensione e costo modesto. Lo abbiamo fatto con l’impegno universitario, con sforzi di natura culturale e infine anche con iniziative espositive come The Japanese House o come At Home (2019). La casa realizzata da Paola Carassai a Civitanova Alta per la sua famiglia è certamente frutto del talento e della capacità di lavoro della sua giovane autrice ma forse anche del nuovo mindset che da qualche decennio va finalmente crescendo all’interno dell’architettura italiana. Forse anche grazie alla consapevolezza che proprio alcune delle scene architettoniche cui più riconosciamo valore – Svizzera, Belgio, Portogallo, Cile – alimentano la qualità diffusa della loro architettura proprio sull’impegno dei migliori architetti nella realizzazione di case grandi e piccole.
La casa progettata da Paola Carassai si trova in un’area a margine dell’abitato di Civitanova Alta. I suoi nonni tenevano in quell’area delle capanne con gli animali. Il progetto sviluppa quindi un approccio semplice e contemporaneo ma allo stesso tempo incorpora un tasso molto alto di memoria e appartenenza al luogo. Tornando agli esempi giapponesi cui alludevamo all’inizio, l’impressione è che il piccolo edificio residenziale grigio scuro realizzato dalla Carassai debba molto a quella cultura progettuale. Il comfort non è ricercato attraverso l’opulenza degli spazi e dei materiali ma piuttosto attraverso una strategia che mette l’intimità e la fluidità degli spazi al centro del progetto. Le scelte planimetriche sono minime e accurate: un arretramento in corrispondenza dell’ingresso che separa la zona notte e la geometria discreta che articola gli spazi del soggiorno-pranzo. L’impressione generale è di un spazio non-standard “calibrato” sulle esigenze materiali e psicologiche di chi lo abita, esattamente come avviene nella cultura spaziale giapponese. A conferma di tutto questo nel cuore geometrico della casa non troviamo un’ambiente specifico ma un piccolo giardino d’inverno illuminato dall’alto che connette tutti gli ambienti della casa, sia in orizzontale che in verticale. Una scala in ferro porta al piano superiore, da dove si accede a una terrazza che si affaccia verso Civitanova Alta.
La casa è stata pensata per essere quasi una “passive house”; la struttura portante è stata realizzata in baloon frame completamente in legno, gli impianti sono a pavimento (sia riscaldamento, che raffrescamento), è presente un sistema di aspirazione forzata e il tutto è azionato da una pompa di calore, che si avvale di un sistema alimentato da pannelli fotovoltaici. Inoltre, è presente un sistema di raccolta delle acque piovane che confluiscono in un serbatoio interrato in giardino. Nel declivio terrazzato sul quale si adagia la casa si trova un uliveto e un’ampia varietà di alberi, quasi tutti preservati rispetto alla situazione prima del progetto.