Non fanno che ripetere che sono rimasti pochi, che in giro non c’è più nessuno e che una volta la vita era diversa. Sposati con la terra, con gli animali, con gli alberi e le piante. Si muovono ancora bene, malgrado tutti gli anni piegati a toccare la propria ombra. Sono diffidenti, eppure alla fine ti raccontano le vicende della loro esistenza come fossi un amato fratello. Sono vecchi e depositari delle nostre radici. Il loro futuro però si esaurisce nell’attesa della prossima alba. Potremmo pensarli come figure provenienti da un passato lontano, sovrumane, eroiche e allo stesso tempo familiari.
Sono gli ultimi contadini e sono la nostra memoria.
Lorenzo Cicconi Massi



Presenze mute, fuori del tempo
“Io sono una forza del Passato” P.P.P Si può leggere in un volto tutta quanta una vita, come fosse un palinsesto percorso da rughe dove il tempo si è inciso e l’inchiostro è sbiadito lasciando nudi i solchi, pari ad arcaiche cicatrici. Sembrano esseri antichissimi i contadini che Lorenzo Cicconi Massi iscrive nel suo campo fotografico rispettandone la presenza muta, oramai fuori del tempo o senza tempo, e accettandone quella postura frontale e ieratica che li scolpisce e, al presente, ne fa quasi dei totem. Mezzo secolo fa Pier Paolo Pasolini aveva gridato, nella generale distrazione o nel compatimento, che restavano al mondo i testimoni estremi di una millenaria civiltà, quella agricolo-pastorale, che il neocapitalismo stava tuttavia cancellando nella forma di un silenzioso genocidio e per il tramite di ciò che pure fu detta la produzione di merci a mezzo di merci. Cicconi Massi è a sua volta testimone di esistenze divenute vetuste e oramai dislocate sulla frontiera.
Il volto, i volti. Sembrano appartenere a individui del tutto laconici al popolo degli individui muti che passano sulla terra (e sono la stragrande maggioranza degli esseri umani) senza lasciare traccia riconoscibile o memorabile di sé. Proprio il tempo che li segna per spegnerli li rende anche iperespressivi, il loro silenzio in effetti parla e si propaga in profonde risonanze. E sono volti via via immobilizzati, reificati, perfettamente acclimatati nel contesto nativo e cioè nelle aie desolate, nei muri sbreccati, nelle ragnatele ataviche e rampicanti sui muri che la memoria postmoderna assimila a un Burri senza più cogliere l’esito del tempo lasciato a sé medesimo e al suo scorrere nella generale indifferenza. Così è di quegli interni improbabili e persino fortuiti se traguardati all’oggi: le camere da letto e i tinelli anni cinquanta, le madonnine del Sassoferrato in capo ai letti e poi i berretti, i cappelli di paglia, i vestiti che il tempo ha resi informi, simili a fasciature o a pròtesi della vita quotidiana. Quando Mario Giacomelli, uno dei grandi maestri di Cicconi Massi, oltre mezzo secolo fa fotografava i contadini per il ciclo de La buona terra, costoro potevano ancora esibire o anzi ostentare i cosiddetti panni della festa, perché la festa esisteva, complementare al giorno di lavoro: gli ultimi contadini no, i loro panni terminali non hanno distinzione e sono indistinguibili dai corpi che li indossano, perché il mondo è pensabile soltanto come un mondo di giorni feriali, di giornate in circolo dall’alba al tramonto dove la notte non sembra esistere se non quale attesa e pura incombenza. La notte nel mondo degli ultimi contadini, evidentemente, è indicibile e troppo facilmente il sonno si assimila alla morte per farne un caso o un problema: la morte fa parte dell’ordine naturale delle cose, è aspettata con dignità imperterrita ma anche con superstizione (la stessa, magari, che a sera induce le galline a salire sull’albero per paura delle volpi).
Ma un residuo conforto appartiene agli ultimi contadini ed è semplicemente la luce del sole, cui si espongono ingenui, indifesi, quasi obbedissero a un rituale. (Qui la luce a picco si incide nelle foto di Cicconi Massi, ne scandisce i neri per contrasto dialettico, li scioglie e li riaggruma quasi fossero reagenti chimici, attivi a vicenda). Nessuno ha gli occhiali, a proteggerli è la tesa del cappello di paglia nella cui ombra si profilano sguardi di straordinaria fissità e intensità che il fotografo inquadra in primissimo piano, per omaggio al cinema di Sergio Leone. Peraltro sono tutti vecchi e non lavorano, semmai del lavoro si immagina, nel loro sguardo melanconico, la nostalgia. Sanno quanto li aspetta. Perciò nel baricentro esatto della sequenza di Cicconi Massi non poteva che esserci l’immagine che in effetti c’è, struggente nella sua limpidezza, quella di un minuscolo cimitero collinare, a Capolavilla di Genga, con poche tombe a terra e croci essenziali di metallo, appena un fiore, come se davvero fosse la Spoon River degli ultimi contadini.
Massimo Raffaeli Chiaravalle, 24 aprile 2024






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