Quella del grottarolo è una condizione che sono cresciuto subendo. Perché per molti versi la grotta è una cosa da adulti: una “spiaggia” tecnica, all’apparenza aspra e da faccende. Un luogo che richiede manutenzione ed esperienza, che ti costringe agli occhi aperti. Da piccolo sognavo altri lidi, sabbie e battigie facili. Al peggio ciotoli e renelle. Invece ho dovuto fare i conti con cemento e scogli, aculei di ricci, ortiche e scorticature, pronti soccorsi. La grotta ti educa aprendoti al suo mondo. La sua singolare matericità inizia dall’approccio: un ascensore/rampa di lancio, una scalinata monumento, il dirupo che ti conduce dalla realtà e dall’afa della città di sopra al giù, dove tira sempre un po’ d’aria. Poi i profumi: gli odori dal mare, le alghe macerate al sole, i soffritti dalle grotte, l’acqua dei moscioli, l’erba dal dirupo sopra.
Ogni grotta ha il suo mondo, le sue regole, la sua estetica, i suoi attrezzi. Ecco, le grotte ti attrezzano: ho il ricordo di oggetti non nati per il mare, ma che al mare si sono dovuti adattare. Lo scalpello arrugginito di quasi 2 metri di Zio Dario per prendere i balleri. Il verricello per tirare su la barca. Le palanche di legno – assurdamente pesanti – ingrassate con la sogna dei vari al porto e tenuta in un lurido secchio di plastica, in fondo.
E alla fine i colori senza fine dei tramonti dietro la seggiola del papa.
foto Claudio Maffei