Per me i momenti fondamentali della composizione modernista sono rappresentati da Mies, sicuramente più che da Le Corbusier, e da Leonidov, molto più di Gropius. Potrei andare avanti con la lista, ma dubito che sarebbe molto originale. Tuttavia, ogniqualvolta mi capita di passare in rassegna queste immagini moderniste, a colpirmi è la straordinaria discrepanza che c’è tra la perfezione e l’immediata compiutezza raggiunta da questi architetti sul piano architettonico (si veda ad esempio il Padiglione di Barcellona di Mies o il Danteum di Terragni) e la rigida semplicità, quasi infantile, dei loro progetti urbanistici, concepiti come se la complessità della vita quotidiana potesse essere risolta improvvisamente dalla libertà offerta dalla «pianta libera», o come se tutta l’esperienza della frammentazione, e ciò che in prospettiva significava, potesse verificarsi senza avere conseguenze nell’ambito della città. Questo si vede molto chiaramente anche nei progetti poco convincenti di Otto Wagner per l’ampliamento di Vienna. Così, secondo me, l’architetto più visionario, colui che meglio ha inteso l’ineluttabile disordine in cui viviamo, resta Frank Lloyd Wright con la sua Broadacre City. I progetti a cui ho lavorato nel corso degli ultimi dieci anni erano collocati in un territorio non più definibile come periferico, ma che bisogna considerare come limite o confine della periferia. È qui, ai bordi della periferia, il posto dove guardare a come prendono forma le cose. La città contemporanea, quella composta da queste periferie, dovrebbe produrre una sorta di manifesto, di omaggio anticipato a una forma di modernità che, rispetto alle città del passato, può sembrare priva di qualità, ma della quale un giorno dovremo riconoscere che i molti vantaggi sono quanto meno pari agli svantaggi. Dimenticate Parigi e Amsterdam, e andate subito a vedere Atlanta senza preconcetti: è tutto quello che posso dire. A parte certi aeroporti e pochi pezzi delle periferie urbane, l’immagine della città moderna, almeno com’era stata prevista, non è mai stata realizzata da nessuna parte.
a città con cui oggi dobbiamo arrangiarci è praticamente costituita da frammenti di modernità – come se i tratti formali o stilistici astratti fossero a volte sopravvissuti in essa allo stato puro, mentre invece la programmazione urbanistica fosse fallita. Ma di questa mancata riuscita non farei un dramma: questi strati neomoderni, che negano letteralmente la città tradizionale nello stesso modo in cui negano il progetto iniziale della modernità, offrono nuovi temi su cui lavorare. Attraverso di loro si possono mettere a confronto edifici di epoca e spazialità diverse, cosa che era inconcepibile per la pura dottrina del modernismo. Da loro si può anche imparare a destreggiarsi con i substrati, mescolando il già costruito con il progetto ideale. Questa è una situazione paragonabile a quella che fu già bersaglio di molte critiche nel XIX secolo, quando a Milano, a Parigi o a Napoli veniva applicata la strategia di ristrutturare la città senza distruggere quella preesistente.
Negli ultimi quindici anni c’è stata tutta una produzione di immagini di porzioni di città che, densamente popolate o meno, esercitano un innegabile potere di attrazione. Il problema è che sono state concepite in una sorta di utopia inconscia, come se i poteri costituiti, i meccanismi decisionali e i mezzi realmente a disposizione potessero rimanere incantati dalla bellezza o dall’interesse che presentano. Come se la realtà potesse aderire a questi schemi e riuscisse a capire quanto importante sarebbe stato realizzarli, cosa che per quanto ne so non si è ancora mai verificata. Invece di affidarsi a questo tipo di fascinazione, o puntare sull’autorità assoluta dell’architettura, penso ci si dovrebbe chiedere in che direzione stanno andando le forze che contribuiscono a definire lo spazio. Sono per l’urbanizzazione o per la disurbanizzazione? Vogliono l’ordine o il disordine? Giocano sulla continuità o sulla discontinuità? Quale che sia la risposta, lì c’è movimento e ci sono delle dinamiche che bisogna imparare a riconoscere, perché sono la materia stessa del progetto. […] Oggigiorno qualsiasi spazio vuoto è preda della frenesia di riempire, di tappare. A mio modo di vedere, sono due le ragioni per cui i vuoti urbani costituiscono almeno una delle principali linee di combattimento, se non l’unica, per chi ha ancora a cuore la città. La prima è molto semplice: adesso è più facile controllare lo spazio vuoto che giocare con volumi pieni e forme di agglomerazione che sono diventati, benché nessuno sappia dire bene perché, incontrollabili. La seconda nasce da una mia constatazione: il vuoto, il paesaggio, lo spazio – se li si vuole usare come leva, se li si vuol far entrare in uno schema – possono funzionare da campo di battaglia e suscitare un’adesione quasi totale da parte di chiunque. Questo non succede più per un lavoro architettonico che oggi ispira sempre sospetto e una diffidenza preventiva. […] siccome la nostalgia mi infastidisce, sempre di più cerco di non essere moderno, bensì contemporaneo.
Rem Koolhaas Testi sulla (non più) città
Quodlibet 2021 collana Habitat
a cura e con un saggio introduttivo di Manuel Orazi traduzione di Fiorenza Conte
Manfredo Tafuri
Dal progetto alla storia. Gli anni della critica e della nuova dimensione urbana
a cura di Luka Skansi
Quodlibet 2022
Collana Habitat
Subito dopo la laurea, Manfredo Tafuri, in parallelo all’insegnamento universitario come assistente di Ludovico Quaroni, si è impegnato nella progettazione architettonica e nella «critica in atto» sulle questioni più cogenti del primo dopoguerra, in particolare a Roma come la «città territorio» che in quegli anni di boom economico e grandi migrazioni interne infiammavano la discussione urbanistica. Secondo Tafuri, tutto ciò non poteva certo «risolversi curando lo studio dei singoli problemi edilizi, ma per le sue dimensioni, richiedeva una scala più vasta, la scala del piano regolatore comunale, se non di quello territoriale». A questa stagione appartengono i saggi qui riuniti per la prima volta. Come sostiene Giorgio Ciucci, «Tafuri era giunto alla conclusione che non era dato all’intellettuale cambiare il mondo, e che tuttavia doveva inevitabilmente lavorare per quel cambiamento».
Sigfried Giedion
Costruire in Francia Costruire in ferro Costruire in cemento
Quodlibet 2022
Collana Habitat
In questo libro seminale del 1928 – qui riproposto in una edizione il più possibile fedele all’originale – le grandi frecce di sapore costruttivista che Giedion dispone nel libro sotto la supervisione di László Moholy-Nagy – grafico responsabile, fra l’altro, dei libri della Bauhaus – uniscono visivamente autori francesi dell’Ottocento ad altri tedeschi del Novecento (da Jules Saulnier a Ludwig Mies van der Rohe, Gustave Eiffel a Walter Gropius), suggerendo in questo modo una linea evolutiva che la comparsa di nuovi materiali come il ferro aveva accelerato e orientato verso la creazione di inedite tipologie architettoniche quali gallerie coperte (i «passages» parigini), esposizioni internazionali, grandi magazzini, oltre a colossali infrastrutture. Come rileva Jean-Louis Cohen nell’introduzione, «la narrazione spesso enfatica offerta dal libro, specialmente al “lettore frettoloso” che si limita alle didascalie delle illustrazioni, sembra combattuta fra propaganda e storia».
Lorena Alessio
Progettare con il compensato strutturale. Da Accupoli a Poplyhouse
Quodlibet Studio. Città e paesaggio
Album
2021
Negli ultimi anni, il ritorno al legno nell’ambito dell’edilizia ha comportato un rinnovato interesse verso la progettazione di strutture prefabbricate e a secco. Il volume è dedicato al percorso progettuale sviluppato dallo studio laa (Lorena Alessio Architetti) che si propone di individuare soluzioni architettoniche sostenibili e antisismiche attraverso l’utilizzo del legno, in particolare del compensato, senza pregiudicare l’interazione con altri materiali. In questo senso è emblematico il racconto della nascita di PoplyHouse: dopo la prima esperienza del progetto Accupoli, nei pressi di Amatrice, la sperimentazione sul campo si è tradotta nella definizione del brevetto per un nuovo giunto, combinato (ad esempio nei progetti dello showroom per E. Vigolungo S.p.A. e dell’Eremo del Silenzio) all’innovativo utilizzo strutturale del compensato di pioppo, la cui riscoperta contribuisce peraltro alla tutela e al sostegno della filiera locale legata a quest’albero.
Borgofuturo+
Un progetto locale per le aree interne
a cura di
Matteo Giacomelli
Fulvia Calcagni
Quodlibet Studio. Città e paesaggio
Saggi
2022
Le questioni legate alle cosiddette aree interne acquisiscono un rilievo sempre maggiore nel dibattito accademico e politico. I temi dell’ambiente e delle culture locali sono una chiave di lettura prioritaria e distintiva, proprio in virtù della loro pervasività e del ruolo che assumono nel determinarne i caratteri identitari e le specificità territoriali. I territori oggetto del presente studio sono quelli dell’Alto Maceratese nelle Marche, dove nel 2010 è nato Borgofuturo, un progetto legato al borgo di Ripe San Ginesio, una scommessa che, partendo dal festival della sostenibilità a misura di borgo, ha prodotto un nuovo immaginario del luogo, e ha promosso una concreta opera di rigenerazione. Nell’estate tra i due lockdown dovuti all’emergenza Covid-19, l’edizione celebrativa del decennale di Borgofuturo+ ha trasformato il quadro: quella che era un’isola di rinascita diventa un fattore d’influenza nel macro-territorio della Val di Fiastra, generando nuove reti e nuovi processi di trasformazione condivisa.