Architettura
- Racconti

Ca’ Romanino e Spiriti a Urbino

Mappe °16


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Ho studiato il pensiero e i progetti di Giancarlo De Carlo durante il primo anno della Facoltà di Architettura (1996). L’occasione: una tesina per l’esame di storia dell’architettura contemporanea. “Nelle città del mondo” mi aveva folgorato: il libro che GDC aveva scritto nel 1995 era un racconto continuo, intenso ed emozionale del rapporto tormentato con le città visitate, nel tentativo di sciogliere un intricato groviglio di problematiche antropologiche, architettoniche e urbane attraverso la personale esperienza dei luoghi. Avevo scelto di scrivere la tesina su GDC perché qualche mese prima avevo seguito una sua conferenza, durante il mio semestre sabbatico dopo la fallimentare iscrizione alla Facoltà di Ingegneria. Carico di impeti ugualitari e umanitari avevo viaggiato tra la Bolivia, il Perù e l’alto Cile e, in qualche modo, mi sentivo capace di vivere esperienze urbane con la stessa intensità. Nonostante fossi marchigiano, i miei primi riferimenti visivi dell’opera di GDC non furono gli edifici di Urbino. Scelsi di andare a vederli come tappa finale di un percorso di studio che si poteva concludere con un ritorno a casa. Quindi feci un percorso a ritroso nei territori segnati dalle sue architetture: prima di tutto le case di Mazzorbo, l’Università di Catania, di Pavia e gli istituti di Siena. Il villaggio Matteotti e l’ospedale di Mirano. La colonia Enel di Cervia e la porta urbana a forma di ponte a San Marino. Confesso ora una certa dose di entusiastica esaltazione giovanilistica.

Ca’ Romanino, il terrazzo
rivolto a est del primo piano

Quello che troviamo in questo numero di Mappe è il tentativo di mettere insieme due racconti diversi all’interno dei quali si (s)compongono altri racconti in un rincorrersi di camere testuali molteplici, tutte basate sulle esperienze e le sensibilità narrative di “visitatori differenti”, chiamati a trascrivere il proprio sguardo emozionale con personale accento su frammenti dell’eredità architettonica di GDC a Urbino.

La scelta di raccontare Ca’ Romanino a partire dalle parole di chi ne cura la conservazione offrendone il carattere più intimo e insieme ricordare i frammenti delle architetture di GDC negli scatti di otto fotografi chiamati a cogliere lo spirito del maestro genovese nella città che fu di Francesco di Giorgio Martini, Laurana e Raffaello, è sicuramente un modo arbitrario ma allo stesso tempo quello che è sembrato migliore per dare voce in prima persona a chi volevamo rappresentare. La scelta non è stata complicata. Gli eventi ci hanno aiutato: la mostra Spiriti al Palazzo Ducale ha fornito il materiale, l’apertura all’ospitalità turistica della casa, ora disponibile grazie alla Fondazione anche per pernottamenti e affitto, ha invece offerto la motivazione. Certamente non si tratta di un modo consueto per raccontare il rapporto professionale virtuoso di GDC con la città che lo ha accolto e ospitato offrendogli tante occasioni di ricerca, di sperimentazione e di verifica del suo pensiero sulla città e sul territorio. Forse racconta di più del desiderio di descrivere, con intimità e affetto, il mondo emotivo sotteso al progetto di luoghi, di una relazione tutta viscerale tra lo spazio, anche domestico, e un territorio.

Non so se è vero che c’è sempre una città prima e dietro le scelte di un architetto, una città che filtra l’esperienza che un architetto fa con altre città, una città subliminale attraverso la quale far vibrare in risonanza i caratteri della città esterna, minerale e concreta della quale si fa esperienza. Sono sicuro però che GDC non abbia mai reso Urbino la sua città individuale, la cornice spaziale del suo pensiero sulla città, la cifra della sua architettura e del suo progetto urbano. Urbino non è quella città interna fondata sulla stabilità di alcune visioni, percorsa dal flusso dei suoi pensieri, segnata dalla rete delle sue contraddizioni e incisa dalle tracce delle sue trasformazioni. Urbino non placa l’inquietudine feconda di GDC verso la specificità dei territori, non concentra la sua “passione architettonica” del mondo. Non costruisce i presupposti per una possibile teoria sistematica del progetto urbano. Ma guardando le foto della mostra Spiriti e ripercorrendo con la lettura la visita a Ca’ Romanino sembra possibile scorgere l’offerta di una tonalità poetica che si propaga nello spazio. Come se la casa, come pure le architetture pubbliche, potessero apparire a chiunque sempre familiari, ma anche inaspettate e sorprendentemente nuove.

Come se potessero apparire luoghi dove la vita si svolge senza la rigida specializzazione degli ambienti nella definizione immutabile degli usi, dove la sequenza degli spazi non è determinata in modo diretto e univoco partendo dalla funzione ma è punteggiata, nel quadro di una coerenza continua dei materiali, dalla presenza di elementi vitali. Episodi nella complessità spaziale in un processo organico scalare con il territorio. In Ca’ Romanino gli elementi metallici condensano questa poetica in un rosso profondo. Attraverso un riferimento non univoco tra interno ed esterno, la casa articola infatti una continua correlazione tra spazio e contesto, e nello studio di soglie e connettivi ne riconosce la comune appartenenza a un fenomeno dal quale non vogliono separarsi. Considerare il sedime della preesistenza (la vecchia casa colonica abbattuta) come componente unitario della nuova costruzione ribadisce il rifiuto di una falsa dicotomia tra conservazione e innovazione, mentre il ricorso al percorso di accesso in trincea proietta la casa in una dimensione di intimità che edulcora l’interpretazione dei critici e degli storici che l’architettura di GDC risponda prima di tutto a una ragione politica piuttosto che profondamente umana. Con una certa dose di entusiastica convinzione, attraverso queste pagine su Ca’ Romanino e sulla mostra Spiriti, soprattutto ora che è chiusa, Mappe racconta esperienze diverse di uno stesso contesto, provando a far nascere il dubbio sull’unicità del loro soggetto e facendo in modo che il soggetto stesso si mostri in connessioni mai tentate o riferimenti imprevisti. Prova a raccontare, in una sineddoche incompleta ma virtuosa, l’eredità culturale e materiale di un maestro del territorio.

La casa vista da ovest.
Mattoni e cemento a vista elementi dell’architettura

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