“[…] io vorrei poter restare zitto con una donna. […] avere con lei un tipo di rapporto come con la natura. […] davanti al mare, in mezzo a un bosco, da solo che fai? Guardi in silenzio. Però senza che tu te ne accorga un dialogo c’è. Parli, e rispondi. Come se ci fosse un’altra persona. La donna ideale per me è quella che si identifica con questa altra persona.”
Dialogo tratto dal film Identificazione di una donna, regia di M. Antonioni, 1983
Il rapporto tra architettura e natura ha origini antichissime.
Architetture che respirano l’aria dei luoghi riempiono migliaia di pagine dei libri di storia. Costruire ha sempre dovuto “rendere conto” alla natura. Quando la natura aveva il valore della categoria metafisica. Quando, dal modernismo in poi, si è cominciato a pensare l’architettura come un fatto universale per il quale il progetto diventava astratto e la realizzazione possibile in qualunque luogo, con qualsiasi materiale e con qualsivoglia sfumatura linguistica. Ma anche quando, paradossalmente e con buona pace dei nostalgici storicisti, i paesaggi che la storia consegnava come cristalli di Boemia alla luce perfetta delle culture locali, si sono riempiti di strutture che sarebbero potute sorgere ovunque, a volte così estranee al paesaggio da diventare esperienze costruttive senza luogo. Abbiamo visto sorgere palazzi di sei o sette piani in villaggi di montagna, enormi caserme tra dolci colline o giganteschi condomini in riva al mare. Nel linguaggio giornalistico, edifici così avulsi dalla realtà circostante da essere considerati “mostri”. Contrari alla natura, lontani dai paesaggi che comunque erano lì, solido sfondo contro il quale anche il più smargiasso edificio sbatteva duro. Senza apparente dialogo.
Allora se è vero che l’architettura deve entrare in vibrazione con il contesto altrimenti non è (Vittorio Gregotti), e la mera ricerca estetica va rifiutata e il semplice gusto reso una chiacchiera superficiale (Norberg-Schultz), sembra oggi più che mai necessario capire le dinamiche di questa vibrazione e la lingua attraverso la quale stabilire un possibile dialogo. A quale storia, narrazione, responsabilità (e chi più ne ha più ne metta) la progettazione architettonica deve rivolgersi per definire un’armonia tra l’uomo e la natura, realizzare un nuovo sistema in equilibrio tra ambiente costruito e ambiente naturale attraverso l’integrazione dei vari elementi artificiali e naturali?
Con i dovuti distinguo e le doverose precisazioni, credo che la natura (e forse anche la storia) e l’architettura possono dialogare in silenzio. Accogliere innesti e stratificazioni come tentati schiaffoni e amabili carezze. L’importante è guardarle in silenzio e lasciarsi accogliere in un dialogo le cui logiche non sono dettate dall’ansia di parlare con loro, ma dal bisogno di guardarle standone zitti. Sospesi tra il bisogno di affermarsi e l’ansia di scomparire, il progetto potrebbe trovare nella natura e nella storia la sua donna ideale solo guardandole.
Senza cercare di dire nulla di sé. Che non significa rinunciare a stare insieme, ma capendo il valore dello sguardo silenzioso. Come se ci fosse un interlocutore ideale che capisci solo con lo sguardo.
Ai posteri l’ardua sentenza