L’artista non è ‘fuori dal mondo’ ma neppure ‘nel mondo’.
Giulio Paolini, 2022
Non vuole comunicare in forma diretta, in tempo reale e imporre la sua voce ma ascoltare, cogliere un’eco.
Quando penso alla ceramica mi viene in mente l’orinatoio di Duchamp e quindi associo la materia primeva, dalla forte connotazione antropologica, alle prime istanze concettuali e provocatorie dell’arte cosiddetta contemporanea. Ho sempre trovato il materiale come connotato da una natura bicefala: da un lato protagonista indiscusso della creatività umana dagli albori della nostra Storia e dall’altro una sostanza con caratteristiche così proteiformi e malleabili da raggiungere una versatilità che sembra perfetta per registrare le articolazioni e complessità del nostro presente. Una meditazione su suolo, acqua e fuoco da un punto di vista costruttivo e mitico, che in Davide Monaldi si compendia con la logica del progresso e dell’attuale. Nelle sue sculture in ceramica non vi è un rimando letterale all’affondo junghiano e queste non paiono uscire da un sito archeologico, non traggono alfabeto dalla mano plasmante di un’antica civiltà perduta che traduce lo spirito e gli archetipi universali in forme arcaiche: vi è al contrario una sensibilità leggera, ironica, ancorata alla fragilità e al disincanto del presente. In questo senso ben si può inserire l’artista fra coloro che impiegano in maniera sperimentale la ceramica secondo uno spirito immanentista, un misto, nel suo specifico, fra irriverenza dadaista e una profonda impronta simbolica sulla quotidianità che ci circonda.
Come affermava lo stesso Duchamp: “Le mie armi preferite sono l’umorismo e il riso, non necessariamente la derisione sprezzante. Questo può derivare dalla mia filosofia generale di non prendere mai il mondo troppo sul serio, per paura di morire di noia”. Anche in Monaldi ravviso questa sottile linea ironica volta a convertire la tragedia in commedia e la commedia in arte.
Questa attenzione alla bellezza dell’indifferenza, questo essere a volte non estetico, in fin dei conti gli permette di raggiungere un intimo lirismo, che sfiora la poesia nelle prove più convincenti. Come il Maestro incarna con grande coerenza il concetto dell’homo faber nel suo significato più completo di poeta (in greco, colui che fa) e di artista (colui che fa, in sanscrito). Le sue stesse opere in ceramica, costantemente messe in pericolo dall’equilibrio e dagli accidenti che possono distruggerle, avvallano questa ipotesi di lettura, dove il limite strutturale è denotativo. Sono una sorta di oggetti che, come l’essere umano, fanno dei loro limiti la propria bellezza: in cui peculiarità come versatilità e fragilità nel momento in cui subiscono una trasformazione, alchemica e simbolica, diventano altro.
Il lavoro di Davide Monaldi pertanto si risolve nel suo esplicarsi apparentemente quale gioco semantico: in questo a mio avviso è estremamente liminare a quello di Pascali quando l’artista pugliese afferma che il “costruire significa liberarsi per cercare di vedere se stesso dal di fuori nell’atto di modificarsi, raddoppiarsi, triplicarsi, rimpicciolirsi, distruggersi, riproporsi, identificarsi”. Per entrambi la capacità manipolatoria risulta fondamentale per riagganciarsi al reale; per entrambi è il ponte fenomenico ed esperienziale che mantiene la loro sostanza artistica, viva.