Intervista

L’arte come pratica trasformativa Intervista a Claire Fontaine

Mappe °20


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Intervista con

Claire Fontaine

Artista

CC – Il ready-made di Claire Fontaine a partire dal nome. Qual è la visione e lo sguardo per leggere il mondo e i suoi ecosistemi?

CF – Il ready-made è per noi un prisma molto utile per leggere la realtà. Duchamp usava un gioco di parole: in francese “ready-made” suona come “rédimé” (redento) per indicare la transvalutazione che un oggetto scelto da un artista subisce quando è rivelato come opera d’arte. L’infrasottile, simile a quello che Perec chiama l’infraordinario, è una categoria molto importante. Infrasottile è qualcosa che è appena percettibile ma racchiude infinite risorse di poesia e di magia. Questa idea ci aiuta a comprendere quanto la valorizzazione degli esseri e delle risorse sia sbagliata nel nostro attuale sistema di giudizio. Viviamo in un mondo in cui la natura ha un prezzo solo se può essere sfruttata, se può trasformarsi in combustibile, energia, cibo. Il suo valore socio-simbolico e la sua funzione vitale per l’ecosistema non sono contemplati, vale lo stesso per il modo in cui è remunerato il lavoro delle persone. I mestieri meglio pagati sono quelli più speculativi e parassitari; i servizi fondamentali per il benessere dei viventi, il lavoro di cura, l’istruzione, l’assistenza delle persone malate, fragili, dei bambini e degli anziani sono sottopagati e svalutati a dei livelli ormai pericolosi per noi tutti. È interessante anche che il ready-made acquisti il suo valore in quanto opera nel momento preciso in cui perde il suo contesto, in cui perde il suo valore d’uso per acquisire un valore d’esposizione. Gli esseri umani che perdono il proprio contesto originario, gli stranieri, i migranti, i rifugiati, non acquistano un valore nuovo, sono considerati spesso come inutili e indesiderabili perché non si valorizza l’esperienza del viaggio verso un destino nuovo in modo adeguato.

CC – La fabbrica, il luogo del lavoro, la comunità al lavoro è un ecosistema tra i più interessanti e in metamorfosi della società contemporanea. L’idea dello stare insieme si è scomposta in una molteplice varietà di situazioni, contesti e conoscenze. Cosa è accaduto in Elica durante la vostra esperienza?

CF – A Elica siamo tornati più volte per incontrare vari attori di questa realtà in modi sempre diversi. Abbiamo iniziato facendo una conferenza accompagnata da immagini sul nostro lavoro, insieme a Marcello Smarrelli, aperta a tutti e a tutte. Abbiamo poi incontrato il gruppo delle dipendenti con cui dopo, in un secondo passaggio, ci siamo riuniti per sperimentare con le tecniche dell’autocoscienza, scambiandoci storie e emozioni sulle nostre esperienze di lavoro, di vita e di libertà. Siamo ritornati ancora per installare il lavoro concepito alla luce di questi incontri precedenti, per inaugurarlo e per fare il workshop con i bambini dei dipendenti. Quest’ultima fase è stata molto commovente perché ormai eravamo “conosciuti” da alcuni in azienda e quindi ci siamo sentiti un po’ parte della sua comunità. I bambini, per cui abbiamo scritto una favola, hanno disegnato (diligentemente e con gran talento) animali scappati dalle pagine dei libri, con cui in questo momento stiamo realizzando una carta da parati per la mensa dove i loro genitori pranzano. La creazione di comunità è stata molto forte durante il workshop: le dipendenti sono riuscite a incontrarsi in quello spazio come donne e persone e non solo come colleghe. È stato un momento molto prezioso. Sì, il nostro contratto sociale e la nostra vita professionale stanno subendo enormi trasformazioni, la più importante è ovviamente legata al lavoro femminile, sia per quanto riguarda la percezione delle donne nella sfera pubblica e domestica, sia per i problemi pratici che si presentano all’interno di una società ampiamente basata sul lavoro di cura, di supporto emotivo e di manutenzione quotidiana informale gratuita che le donne si sono sobbarcate per millenni, scomparendo così totalmente dalle arti, dalla cultura, dalla scienza e da tutti i campi che hanno un disperato bisogno della loro presenza. Probabilmente questi cambiamenti ci porteranno a mettere in discussione tanti altri presupposti sbagliati del patriarcato che nuocciono a noi tutti.

CC – Ogni opera di Claire Fontaine trasforma lo spazio in un luogo di confine, in tensione e in azione, e niente è più come sembra e come era. Cosa rappresenta “Il personale è politico” in quel luogo e in quella modalità espositiva? È un testo con uno statement impegnativo e interrogante. Come vi siete arrivati? Il collettivo si è dilatato?

CF – Claire Fontaine è – lo ribadiamo sempre – un dispositivo di desoggettivazione, quindi è per natura permeabile e aperta agli effetti del suo stesso lavoro. La nostra pratica è una pratica trasformativa, di noi stessi, del contesto e possibilmente degli altri: permette agli spettatori di entrare in contatto con zone del reale che in condizioni normali sono di difficile accesso, per via delle nostre resistenze o perché non esistono nella cultura dominante le possibilità per raggiungerle. Creiamo dei passaggi, salviamo – come dicevano i filosofi presocratici – dei fenomeni. Si tende a credere che l’estinzione sia un problema che riguarda solo piante e animali: non è vero, anche pensieri, parole, gesti, possibilità di rendere la realtà politicamente leggibile si estinguono. Questo accade perché certe politiche favoriscono questi processi, pensiamo per esempio a come l e società post-totalitarie si trasformano o a come devono cambiare paesi che si lasciano una guerra alle spalle. I tessuti sociali sono ricostruiti e i comportamenti che hanno portato alla distruzione sono sradicati il più possibile dal campo sociale. Queste sono azioni politiche fondamentali che i governi compiono sui loro territori. Dall’altro canto lo stesso tipo di potere può essere utilizzato per renderci più manipolabili, meno attivi e attenti all’importanza della nostra libertà e della nostra socialità. Dobbiamo sempre restare all’erta per comprendere che cosa c’è di prezioso nel nostro presente, anche nelle cose apparentemente più triviali e personali, che valore diamo alle cose che facciamo, per proteggerle, perché il contesto politico è sempre in cambiamento e con esso cambiamo anche noi, ma dobbiamo cambiare per il meglio.

CC – Ha ancora senso parlare di contesti per la presentazione delle opere o tutti i luoghi sono potenzialmente spazi e ispirazioni per l’arte?

CF – Non esiste un contesto ideale per la presentazione delle opere – il nostro amico Nick Mirzoeff dice sempre che il miglior museo è quello senza muri e senza tetto. Gli spazi in cui la gente si raduna per incontrare l’arte sono di certo molto importanti ma è anche essenziale portare l’arte dove il pubblico non se l’aspetta. Elica in questo senso è un esperimento meraviglioso ma anche lo spazio pubblico offre delle opportunità straordinarie sia agli artisti che ai passanti. Le opere rispondono ai contesti, nei musei e nelle gallerie il dialogo è prevedibile, altrove ci diranno cose nuove.

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