Il pane di Zhanna Kadyrova appoggiato su una tovaglia bianca davanti al mare mosso di Marzocca era un segno irriducibile, perentorio. Pane di pietra, un inerte senza lievito, con le sembianze di ciò che è familiare e fa casa ma senza il rito della tavola, del nutrimento e della cura. In quei sassi arrivati dai boschi e dai fiumi dell’Ucraina c’e’ la dimensione tragica della rovina, con l’elaborazione che l’arte offre a se stessa e al mondo. Come gli abiti di “Second hand” – un ciclo affascinante della stessa Kadirova – costruiti con le piastrelle rotte di luoghi distrutti e in metamorfosi. Guerre di oggi che scuotono le coscienze, come le guerre di ieri che hanno segnato generazioni. Demanio prosegue nella ricerca fatta di assonanze e riverberi, dove ogni cosa è dentro l’altra, ogni tema ricorre, si precisa, si espande. Esiste nella relazione. Interrogarsi ora sul tema della rovina e del riparo, parole gemelle, entrambe sostantivo e verbo, definite ma aperte e in cammino, significa provare a cogliere nelle cose del mondo il sacro che abita l’in between di questa civiltà. Stare tra le cose per stare nel tempo e nella storia. Così certi anniversari sono dispositivi, coincidenze che parlano a noi come tracce di futuro. Un secolo fa a Urbino nasceva Paolo Volponi, una figura centrale del ‘900 italiano, che ha anticipato la dimensione sfaccettata dell’intellettuale che si mette in mezzo tra le pratiche e gli immaginari del lavoro e dell’industria come ambiente cognitivo, e l’etica pubblica che ha nella politica l’orizzonte della cittadinanza. Oltre un secolo fa nasceva a Bologna Guglielmo Marconi, l’inventore che segna un punto di non ritorno nella storia umana. C’è qualcosa di magico, arcaico e tecnologico insieme nell’invisibilità del messaggio che trattiene la moltiplicazione potenzialmente infinita della relazione, oltre lo spazio il tempo e i confini. Con lui accesso, simultaneità e interconnessione diventano necessità, cultura e conoscenza, stile di vita, progetto, nuove economie. Ascoltare la sua voce e comprenderne la preveggenza, è un’esperienza che si colloca tra l’archivio e l’oracolo. Oltre duemila anni fa l’eruzione più grande della storia fa di Pompei un luogo planetario, l’immaginario per eccellenza della categoria concettuale della rovina, della sua pratica di studio valorizzazione e preservazione, e dell’infinita tessitura che declina l’idea del riparo e della riparazione come ponte tra le arti e i linguaggi, le antropologie fino alla produzione contemporanea. Pompei Commitment è un dialogo tra memorie che si producono in modalità incessante in un tempo circolare e infinito. La rovina che affascina e seduce per la gravitas, la bellezza della radicalità decadente, l’estensione nel dibattito delle idee – attuale e necessario. La rovina che riguarda l’ecosistema e il Vivente, le specie e ogni altro heritage, gli habitat naturali a rischio estinzione, il linguaggio, il sistema valoriale, i luoghi e le icone a cui le comunità affidano il senso di un’appartenenza comune. Se la civiltà dei consumi, con l’obsolescenza programmata e il lavoro sofisticato sui desideri anche quando orientati al senso intrinseco del limite, è concepita per produrre inesorabilmente rovine e ripari reali e simbolici, è la creazione di legacies consapevoli la sola postura possibile, l’antidoto per riconoscere la dimensione spirituale e simbolica che sta dentro e oltre ogni progetto, ogni edificazione, ogni narrazione. Che si tratti del masterplan di una capitale, di un’architettura o di un’immagine, di un museo, di un oggetto, di un’opera del talento o dell’ingegno. Comunque rovina, comunque riparo.