Prima di tutto il Collettivo
Se si dovesse fare un affresco della Milano del secondo dopoguerra indicando gli studi professionali e le figure più attive e incisive nel dibattito culturale di quegli anni, un posto dovremmo certamente assegnarlo a Giorgio Morpurgo, architetto e urbanista, nonché docente al Politecnico di Milano, figura di primo piano del Collettivo di Architettura, uno degli studi più impegnati in quegli anni nella progettazione urbanistica e architettonica, stranamente poco conosciuto e indagato.
Siamo agli inizi degli anni Cinquanta; l’ambiente universitario del Politecnico si stava appena riprendendo dalla guerra e alcuni docenti illuminati (Piero Bottoni, Franco Marescotti, Irenio Diotallevi, tra gli altri) stavano sviluppando l’idea che la professione dell’architetto dovesse in primis confrontarsi con la società in cui operava e impegnarsi nei problemi sociali che la riguardavano da vicino.
Prima di tutto la casa (un problema enorme da risolvere, data anche la forte immigrazione interna in corso) e, strettamente ad essa collegati, i servizi sociali (asili, scuole, ospedali), i trasporti, le infrastrutture e il paesaggio, che si incomincia a intravvedere come uno dei problemi emergenti. Come è stato scritto da più parti, infatti, il boom economico stava lentamente portando a una svolta riformatrice non solo nel governo del territorio e nella politica abitativa (contro le manovre speculative sulle rendite fondiarie), ma anche nei settori della scuola, della sanità e dell’ambiente.
Il Collettivo di architettura si inserì prima di tanti altri operatori del settore in questo processo e in questi nuovi orizzonti politico-culturali, promuovendo velocemente ed efficacemente un’iniziativa organizzativo-progettuale e una partecipazione, collettiva appunto, alla progettazione, che portò immediatamente a una penetrazione estesa e intensa dei propri membri nelle istituzioni sociali della città e della sua area metropolitana. A cominciare dalla formulazione di iniziative politiche, con attività di consulenza e assistenza tecnica nei dibattiti pubblici, per poi passare alla operatività progettuale vera e propria, mediante la stesura di piani regolatori comunali, piani di edilizia economica e popolare, piani particolareggiati e persino piani intercomunali; fino ad occuparsi della progettazione a scala architettonica di complessi residenziali, cooperative edilizie, centri servizi, scuole, asili, edifici sportivi, etc.
All’inizio degli anni Settanta il Collettivo milanese si trasformò in Collettivo Piani Progetti, con un chiaro intento di soddisfare la sempre maggior richiesta di nuovi piani urbanistici e territoriali nonché residenze collettive. L’attività portò a centinaia di progetti realizzati, molti dei quali ancora non del tutto ben individuati.
Un cantiere creativo
L’idea di lavorare in gruppo era tipico di quegli anni, ma il Collettivo lo fece in una maniera così originale e sorprendente da diventare vero e proprio laboratorio politico e cantiere creativo, raccogliendo consensi e successi sin dalle prime esperienze. Vi partecipavano non solo architetti, ingegneri e geometri, ma anche sociologi, grafici, fotografi, geografi, antropologi, psicanalisti, giornalisti, scrittori, filosofi e molti studenti che vi facevano pratica1. D’altronde in quegli anni Milano era la città dove maggiormente si discuteva di urbanistica e della cultura dell’abitare; era la sede delle maggiori riviste di settore ed era già la capitale delle fiere commerciali e del design.
Ma il Collettivo aveva anche altre caratteristiche tutte sue. L’attività professionale era talmente vissuta e partecipata, da presupporre quasi automaticamente un superamento della sfera professionale privata, a tutto vantaggio di opere “collettive” collegate alla partecipazione sociale. Una definizione che circolava tra i suoi membri, e che fece scalpore, era quella che la figura dell’architetto doveva essere come quella del medico, un “urbanista condotto” o un “architetto condotto”; chiara espressione per dire che il ruolo nella militanza sociale veniva prima di quello tecnico-progettuale. Persino la retribuzione non era a parcella, ma salariale2.
L’identikit del Collettivo milanese fu tutt’uno con l’intellighentia politica regionale e nazionale della sinistra comunista, con la quale aveva un canale privilegiato anche nella proposizione di linee guida in tema urbanistico e di pianificazione territoriale. Una partecipazione attiva e ad alto livello nell’entourage politico milanese che ha fatto sì che proprio da alcuni membri del Collettivo venissero idee e progetti diventati poi leggi nazionali. Alessandro Tutino contribuì alla stesura della Legge n.765/1967 per la definizione degli strumenti urbanistici e degli standard edilizi (la famosa “Legge Ponte”, una delle riforme urbanistiche più importanti dell’Italia repubblicana). Novella Sansoni, che era consulente per il Ministero della Pubblica Istruzione, fu protagonista nella stesura della legge sulla nuova edilizia scolastica e sempre attenta alla questione delle biblioteche, un tema del tutto nuovo, che le portò consensi da ogni direzione. Giorgio Morpurgo, che era uno specialista nello studio e nella elaborazione dei dati tecnici, portò tutta la sua competenza nei diversi consessi politici, sia municipali che regionali. Alla cerimonia di consegna della Medaglia d’oro di Riconoscenza assegnatagli dalla Provincia di Milano l’anno stesso della sua scomparsa nel 1996, il presidente Tamberi sottolineava che “alla sua coerenza e determinazione si devono fondamentali leggi regionali sia in campo urbanistico sia nella tutela dei parchi e del paesaggio. Con passione e discrezione ha svolto un ruolo di primo piano per rendere possibile e credibile un progetto globale per il territorio dell’area metropolitana milanese.”
Il Collettivo di Architettura si sciolse nel 1988, ma alcuni componenti restarono ancora collegati tra loro e si incontravano negli studi, nei cantieri e nelle aule del Politecnico, dove continuarono a insegnare. Nel fare oggi un bilancio dell’attività del Collettivo, si può senz’altro dire che Giorgio Morpurgo ne fu probabilmente tra i membri più fedeli e rappresentativi; come capitani di una nave, Alessandro Tutino, Giorgio Morpurgo e Novella Sansoni furono i primi a entrare e gli ultimi a uscirne quarant’anni dopo.
1. Vedi T. Aymone, Studi preliminari alla progettazione urbanistica per il tempo libero a livello comunale e comprensoriale, Collettivo di Architettura, 1962; Id., Ricerca sociologica e integrazione sociale nelle aree in sviluppo, appunti, Collettivo di Architettura, 1962: id., Indagine a Buccinasco, in Collettivo di Architettura di Milano, 1963
2. Scrive Alessandro Tutino: “Il Collettivo di Architettura di Milano [era] basato su principi di cooperazione, di uguaglianza e mutualità. Principi che costituiranno un punto di riferimento per l’impegno personale sia nella professione che nel mondo accademico e associativo. Negli anni post-ricostruzione, infatti, il tariffario professionale (inderogabile per legge) prevedeva per l’urbanistica compensi assolutamente sproporzionati all’impegno richiesto per analisi e progettazione condotte seriamente. Ingegneri e architetti cercavano e accettavano incarichi urbanistici spesso come veicolo per instaurare rapporti fertili con le amministrazioni comunali, forieri di incarichi di progettazione e realizzazione di opere pubbliche, edilizia o servizi e attrezzature, ma nei casi peggiori anche per ottenere compensi di varia natura da proprietari favoriti da piani regolatori aggiustati allo scopo. Nel Collettivo di Architettura tutti gli oneri e tutti i profitti erano messi in comune, e ogni membro ritirava una quota mensile ugualitaria proporzionata solo alle ore di lavoro. Questa speciale condizione ha permesso una attività estesa e intensa, con particolare rilevanza nell’area lombarda ed emiliana, condotta a tutte le scale della pianificazione: da quella territoriale a quella attuativa, fino a complessi residenziali, sempre e solo di iniziativa pubblica.”
La sperimentazione architettonica e urbanistica sul campo
Morpurgo ebbe anche un merito del tutto particolare. Insegnando contemporaneamente all’Università (vi entrò negli anni Sessanta e vi restò ininterrottamente fino al 1996) e lavorando in uno studio professionale come quello del Collettivo, operò in un certo senso da doppio tramite, portando nell’esperienza professionale tutte le novità culturali che in quel momento circolavano negli atenei e nelle riviste di settore d’Europa e riportando nelle aule dell’Università l’esito di una sperimentazione architettonica e urbanistica concreta, vissuta in prima persona. Tutto ciò giovò immensamente sia ai membri del Collettivo che agli studenti che apprendevano dai cantieri l’esito delle teorizzazioni. Non a caso Giorgio Morpurgo è ricordato come un affidabile rappresentante del Collettivo in sede politica e un maestro vero nel mondo accademico. Il corso tenuto nel 1968-1969 insieme a Giuseppe Campos Venuti è rimasto nella storia del Politecnico come un caposaldo della didattica urbanistica del secondo Novecento3. Ogni professionista che da studente ha frequentato i suoi corsi ricorda con grande rispetto, ma anche con piacere, il suo altissimo magistero, sia teorico che pratico.
3. Giuseppe Campos Venuti in Un bolognese con accento trasteverino: autobiografia di un urbanista, Pendragon, Bologna 2011, p. 89, scrive a proposito del suo inizio come docente nel 1968-69: “Chiesi al vecchio amico Giorgio Morpurgo di unirsi a me e insieme iniziammo subito un corso sperimentale, che insegnava la teoria e la pratica dell’urbanistica applicata che avevamo professionalmente gestito negli ultimi anni e che io avevo anche amministrato; le mie lezioni si rifacevano infatti largamente ad Amministrare l’Urbanistica e con gli studenti elaborammo dal vero i piani particolareggiati di due quartieri milanesi e i piani regolatori di due Comuni della cintura. Oltre un centinaio di studenti lavorarono con noi a quei piani, cosa per l’epoca incredibile e il risultato fu così buono che la Cooperativa libraria del Politecnico pubblicò tutto nel primo volume della sua collana. Insomma il nostro corso condivideva l’impegno politico-culturale del Movimento studentesco, ma il nostro insegnamento era molto più serio e scientificamente corretto di quello accademico che volevamo riformare. Ebbi presto i primi laureati, perché avevo cominciato con gli studenti dell’ultimo anno; e diversi fra questi primi allievi un giorno avrebbero insegnato in quella stessa università”. Cfr. AA.VV., La militanza politica e l’attività di operatore culturale, L.V. Ferretti, C. Mariano (a cura di), Franco Angeli, Milano 2021, p. 100, dove si parla dell’arrivo di Campos Venuti a Milano e della metodologia dell’insegnamento organizzata insieme a Morpurgo.
La militanza politica e l’impegno culturale
Ancora oggi Giorgio Morpurgo viene ricordato per la militanza politica e l’attività di operatore culturale a tutti i livelli. È stato consigliere comunale a Milano dal 1965 al 1970 e consigliere Regionale dal 1970 al 1985 nelle fila del Partito Comunista. Ha goduto dell’amicizia di personaggi come lo psicanalista Cesare Musatti e il giornalista Antonio Cederna. Ha frequentato le iniziative della storica Casa della Cultura di via Borgogna a Milano e ha partecipato nel 1954 alla X Triennale. Ha condiviso la sua attività politica con gli studenti del ’68 e con la gente del quartiere Garibaldi in lotta per la casa4. È stato progettista di decine di PRG comunali e di condomini e cooperative nell’hinterland milanese e nelle province di Bergamo e Brescia; per la Regione Lombardia e la Regione Marche ha redatto i relativi PPAR (Piani paesistico-ambientali regionali). Ha collaborato con le amministrazioni provinciali di Ancona e Macerata. Ha lavorato anche in Emilia Romagna sia a livello regionale che comunale, condividendo molto spesso gli incarichi con altri professionisti. Suoi i PRG di Forlì, Senigallia, Sirolo, Falconara Marittima, Castelfidardo, il Piano dei Servizi di Recanati e alcuni progetti per Arcevia. Ha realizzato negli stessi ambiti numerosi edifici pubblici e residenze collettive, alberghi, divertendosi anche nella progettazione di case private e perfino di una libreria. Ha scritto numerosi saggi e testi legati alla cultura urbanistica, partecipando attivamente anche a convegni di prim’ordine. Ha viaggiato molto e letto molto, ma soprattutto ha osservato e studiato il mondo che lo circondava per cambiarlo in meglio.
4. Cfr. La lotta del “Garibaldi”. Come un vecchio quartiere popolare del centro di Milano ha vinto la battaglia per la sopravvivenza, lavoro collettivo di militanti del PCI, Feltrinelli, Milano 1973.
Da Milano a Senigallia
Come si è detto, sarebbe veramente un’impresa mettere insieme un inventario esauriente dell’attività progettuale svolta dal Collettivo di Architettura in quasi mezzo secolo. Centinaia i progetti, le ricerche e gli studi urbanistici, i PEEP, le architetture pubbliche, i condomini, le cooperative, gli edifici unifamiliari elaborati in un arco temporale che non ha visto soste, né tanto meno interruzioni significative. Ho scelto così di mostrare l’architettura di Giorgio Morpurgo presentando alcuni squarci delle sue due case – a Milano e nella sua seconda patria, Senigallia – per sintetizzare con spazi quasi intimi, il carattere e la sensibilità estetica di questo anche mio maestro. Due case identiche, le cui immagini potrebbero essere tranquillamente scambiate tra di loro, come due “vestiti d’architettura”, tanto aderenti sono alla personalità di Giorgio Morpurgo architetto. Le contraddistingue uno stile semplice e rigoroso, disinvolto e raffinato, come era appunto il suo comportamento, il suo atteggiamento mentale, il suo stare con le persone, il suo modo di vivere. Ambienti accoglienti che mettono subito a proprio agio wcome fa ogni architettura ben riuscita e come sapeva fare molto bene Giorgio con tutte le persone che lo interessavano.
Da Milano a Senigallia
Si trova nel popolare quartiere dell’Isola, al n. 31 di via Volturno, a fianco del mitico edificio che ha ospitato per decenni la Federazione Regionale del PCI, le cosiddette “Botteghe Oscure milanesi”. I due edifici sono nati in simbiosi, tanto in simbiosi che chi abitava al n. 31 poteva passare direttamente al n. 33 senza uscire o entrare dai rispettivi portoni. Così almeno dice la leggenda!
Il palazzo, tutto in mattoni con struttura in cemento armato, fu realizzato nei primi anni Sessanta dal Collettivo di Architettura e Giorgio si era riservato la parte più alta, sviluppata su due piani e sottotetto. Lasciato l’ascensore al settimo piano si entra, dopo un piccolo ingresso attrezzato, nel piano-giorno, dal quale si può salire o scendere alle camere da letto e agli altri vani di servizio. La casa è molto grande e ben fatta: spaziosa, piena di comfort, divertente nella sua articolazione spaziale tenuta insieme da una leggerissima scala in ferro e legno che collega il tutto. È lei l’asse portante che fa di questo appartamento una villa a venti metri d’altezza, aperta a est, su via Volturno, con terrazze colme di piante irrigate (una pionieristica anticipazione di quello che trent’anni dopo sarebbe stato, lì a cento metri, il “bosco verticale”) e a ovest con la skyline che si perde fino al City Life. La luce naturale a quell’altezza è abbondante, così come abbondante è anche la luce artificiale, una passione di Giorgio, che tanto amava l’oggetto-lampada: da terra, da soffitto, volante o puntiforme, purché fosse bella ed efficiente. Aveva una passione dichiarata per il suo amico Caccia Dominioni e per le lampade di Azucena. Una, rarissima, la mise sul tavolo da cucina e tutte le volte che lì cenavamo, non so perché, ci veniva naturale farle un complimento, quasi fosse una presenza umana in più a farci compagnia.
Ma la cosa più particolare, che dà ancora più forza all’atmosfera rilassata di questa casa, è il gioco di pieni e vuoti, di nicchie e mensole orizzontali che ti segue ovunque, dall’ingresso alle stanze da letto
e ai bagni.
La casa di Senigallia
La passione per il mare Giorgio l’aveva ereditata dal padre Guido, che frequentando Senigallia (in precedenza abitavano in campagna) ebbe l’occasione, a metà degli anni Trenta, di assicurarsi a un’asta una villa a pochi passi dalla famosa “Rotonda a mare”, simbolo balneare della città adriatica. La casa fu l’occasione per tutta la famiglia di avvicinarsi anche al gusto pieno del mare, tant’è che nel giro di poco tempo il padre si dotò anche di una barchetta per starsene tranquillo al largo e la chiamò “Vaut Rien”, che tradotto vuol dire “non vale niente” barchetta che alla fine passò al figlio Franco.
La villa fu goduta solo pochi anni. Con la guerra infatti venne requisita (i Morpurgo sono un’antica famiglia ebraica), prima dai militari tedeschi, che ne fecero sede del comando, poi dagli alleati. Dopo la guerra ritornò alla famiglia Morpurgo che la usò soprattutto nel periodo estivo, provvedendo poi a migliorie e sistemazioni interne.
Giorgio mise mano radicalmente all’interno nel 1977-78, quando si era appena sposato con Gabriella e soprattutto dopo che la famiglia si era allargata con tre figli. La considerò come una grande barca, sia perché era a due passi dal mare, sia perché, come era nel suo carattere, ogni spazio doveva essere economizzato e utilizzato al meglio, proprio come si fa sulle imbarcazioni.
Una passione, quella per gli spazi sfruttati al centimetro, che si vede bene in cucina, con tutti gli scomparti a vista pieni di utensili, ciotole, piatti e ceramiche; nei sopralzi delle porte e nei passaggi attrezzati con piccoli, ma utilissimi ripostigli specifici; nella sala e soprattutto nel sottotetto, che per lui era come la stiva di una nave capovolta, con i legni del tetto sulla testa e i letti con le testate in ferro collocate dove il soffitto iniziava ad abbassarsi. Nei punti più agevoli furono sistemati armadi a muro di laminato bianco, scanditi dalla griglia geometrica dei telai di legno.
La linea progettuale prevedeva infatti molto uso del legno (porte, mensole e contenitori a muro); un modo inconscio anche per poter poi far intervenire i suoi amici marangoni di Senigallia, che gli realizzavano tavoli su misura e quant’altro in douglas o pitch pine, tutti rigorosamente fatti a mano. Furono introdotti anche espliciti rimandi formali alla marineria, utilizzando porte sagomate e arrotondate, come si vedono nelle cabine delle navi, gradini dagli spigoli smussati e persino reti protettive lungo la scala. Si riempirono infine anche qui i ripiani più alti con modellini di imbarcazioni a vela di ogni regione e latitudine.
Giorgio ebbe più barche nella sua vita; all’inizio trafficava con la curiosa “Vaut Rien” del padre, poi, nel 1958 arrivò il “Finn”, una barchetta di legno da regata (lunga 4,50 e larga 1,50 metri), famosa tra i patiti del mare per le vincite olimpioniche, e infine la “Pepita”, una barca di sette metri, sempre in legno, fatta costruire all’inizio degli anni Settanta nei cantieri di Pesaro. Il “Finn” fu regalato al figlio Davide, la “Pepita”, rimasta ormeggiata al porto dopo la sua morte, è stata alla fine regalata. Questo è quanto, ma ci sarebbe da dire molto di più!
Ringraziamenti
Gabriella Mengucci Morpurgo, Davide Morpurgo, Fabrizio Marcantoni, Antonio Minetti, Luisella Cotti, Mauro Tarsetti, Sergio Agostinelli, Fabio Ceccarelli, Luigi Verdini, Riccardo Boaretto, Gianni Pesciarelli, Luciano Lussignoli, Nicola e Annamaria Guerri, Gianluigi Mazzufferi, Eros Gregorini, Silvio Argentati, Matteo Vercelloni e Maurizio Cadamuro; Ordine degli Architetti P.P.C. di Milano; Fondazione ISEC Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea, fondo Archivio fotografico Sesto San Giovanni Unità Edizione Milanese.