Questo numero racconta di un confronto impari tra nuove ville di campagna e case di città. Un fenomeno locale che si inscrive nel quadro della dialettica disciplinare, che non trova mai una sintesi compiuta, tra residenze di grandi dimensioni e dimore caratterizzate da una disponibilità limitata di spazio. Da una parte sistemi edilizi complessi, inseriti in contesti di grande fascino paesaggistico, generosi da ogni punto di vista, e dall’altra edifici autonomi di piccole dimensioni, in lottizzazioni ritagliate da tessuti urbani consolidati, o interventi di recupero edilizio, nella compressione dei centri storici o nel sottotetto di una villetta di paese.
Per me è anche il modo più sereno per condividere una riflessione che mi affligge e ossessiona da tempo. Per capirne la ricaduta reale sul territorio, misurarne il peso nella determinazione dell’immaginario diffuso, o semplicemente per edulcorare i timori che mi procura.
Ormai da tempo, girovagando per le colline marchigiane, vedo atterrare grandi edifici residenziali distesi su una pianta così larga da far impallidire le case californiane degli anni ’50; residenze a molte stanze alla ricerca della massima flessibilità degli ambienti, con geometrie secche caratterizzate da ampie vetrate, pareti bianche e superfici preziosissime, piani larghi, sfuggenti o volumi scomposti all’insegna di un uso entusiastico della luce e del paesaggio come elementi essenziali della progettazione.
È come se a un certo punto della storia della produzione architettonica locale delle ville per una committenza importante, in un grande anelito internazionalista, fosse diventato necessario far confluire e intrecciare di nuovo le due principali correnti ideologiche dell’architettura moderna: la corrente razionalista e la corrente organica – chiedo umilmente perdono a Gropius e Wright. Con uno scopo preciso: fondere in uno stile neo-originale, sintesi tra funzionalità e benessere, quella duplice esperienza che fu europea e americana, nella certezza assoluta di indicare all’immaginario diffuso la via per la rappresentazione del gusto e della contemporaneità.
E allora sembrano quasi scontate le raccomandazioni dei clienti per avere una casa “in stile moderno”, fatta di ambienti pieni di luce, spazi definiti da linee tese, con il ricorso al minimal chic fino al limite della deriva algida e l’uso rischioso di un linguaggio estetizzante.
E allora mi chiedo perché, da dove viene questo approccio stilistico, questo immaginario diffuso che poggia su paradigmi appaganti e rischia di ridurre la portata della sperimentazione? Qualcuno direbbe che le ragioni della crisi dell’architettura italiana hanno trovato il loro sfogo anche nei territori nella nostra provincia: in una battuta folgorante e politicamente scorretta di Groucho Marx, riproposta da Giovanni e Michele e poi ancora da Pippo Ciorra: “avessi un giardino
la terrei una fidanzata, avessi un giardino, la terrei un’architettura moderna”.
Mi limito a credere che ancora oggi non ci siano le forze necessarie e necessariamente diffuse per organizzare una vera “opposizione” a un Stile Internazionale, che sembra tornare di nuovo. Rischiamo di rinnegare l’eredità di alcuni maestri che hanno attuato questa opposizione con passione… E qualcuno lo abbiamo anche visto operare nelle Marche – De Carlo. È possibile che non ci siano ancora le condizioni, nel pensiero di intellettuali e politici, per garantire lo spazio all’innovazione nella città e nel paesaggio? È possibile continuare a sprecare le giovani energie buone, capaci di elaborare in chiave locale le innovazioni rintracciabili in giro per il pianeta?
Si tratta di una crisi di lungo corso, nonostante da tempo si coltivi la sensibilità per i temi del dibattito disciplinare globale, si moltiplichino eventi e mostre, si rintracci un apprezzamento mediatico per l’architettura contemporanea e si contino nel Bel Paese molti importanti edifici di “firme internazionali”.
Per entrare in questa dialettica, pubblichiamo anche gli esiti dei progetti di case nate nel cuore delle piccole città che caratterizzano il territorio marchigiano. Una casa realizzata in una lottizzazione strappata a un’area residenziale consolidata: una nuova costruzione sospesa tra ricordo del contesto e sviluppo urbano, tra rarefazione e materialità spuria. Un recupero di una casa a schiera nella sequenza storica di una via del centro storico: un intervento fatto di misurati innesti, di operazioni che sfiorano superfici ed elementi della tradizione. Una trasformazione di una mansarda: un interno neutro e solare, punteggiato da oggetti iconici colorati, nato dall’energia dell’azione di separazione dalla villetta che lo ospita.
E poi due progetti curiosi in contesti religiosi e devozionali: il restauro di un altare, tutt’altro che ortodosso, e una serie di nuove edicole concepite non solo come oggetti, ma come spazi di una nuova devozione familiare.
Alcuni segnali di novità… almeno così sembrano.