CC – Invelle è un nome evocativo, identitario rispetto alle memorie e alla coscienza di luogo. Perché questo titolo, peraltro magnifico?
SM – Inizialmente il film doveva chiamarsi Tre infanzie e mi sembrava un titolo giusto, perché in effetti i protagonisti del film sono tre generazioni di bambini. Nel momento in cui ho ottenuto di poter riscrivere tutti i dialoghi in dialetto marchigiano ho realizzato che il vero protagonista del racconto era un intero territorio, un luogo popolato da povera gente, che non solo non ha mai trovato spazio nei libri di storia ma che ha finito per essere spopolato e dimenticato. Un non-luogo, un invelle, appunto.
CC – Il segno che si alterna tra interni e paesaggi, vuoti e città, è di forte potenza: che tipo di tratto e di logica di animazione hai scelto per questo racconto a tratti davvero epico?
SM – Lo stile grafico e di regia è lo stesso utilizzato nei cortometraggi realizzati nei decenni precedenti. Rispetto ai corti, il racconto ha avuto un respiro molto più ampio e ho sentito la necessità di introdurre elementi per me nuovi. Su tutti, rendere riconoscibili i personaggi, dando loro per la prima volta un’identità e il diritto alla parola. In precedenza, infatti, tutti i miei personaggi sono stati muti e anonimi.

CC – La narrazione segue la linea del tempo e riconosce antropologie e fenomenologie. Qual è il senso di questa lunga storia che va dall’‘800 al ‘900 al passato recente?
SM – Il senso per me ce l’aveva, e ce l’ha, in quanto c’è una storia – una storia che è allo stesso tempo personale e collettiva – che non è stata raccontata, o non è stata raccontata a sufficienza, e comunque mai in animazione. Nel momento in cui ho la possibilità di raccontare una storia, scelgo quella che mi pare più importante, quella che ho più a cuore, quella che manca.
CC – Come si colloca Invelle nello sviluppo del tuo processo autoriale?
SM – Penso sia la naturale prosecuzione di un percorso di ricerca iniziato trent’anni fa, e che mi ha sempre visto autore e uomo libero. Invelle è l’inizio di un nuovo capitolo, visto che la forma breve ha un po’ esaurito la sua funzione, mentre il lungometraggio per me è un terreno nuovo e come tale incredibilmente stimolante.
CC – Quanto c’è di marchigiano in questo film e quanto di metaforico e quindi universale?
SM – Le Marche sono la mia terra, non c’è un fotogramma che non parli di noi, di quello che siamo stati o siamo ancora. I volti, le voci, le colline e il cielo sono i nostri, così come marchigiane sono molte delle mani che hanno disegnato i quarantamila fotogrammi che compongono il film. Quanto ci sia di universale non spetta a me dirlo. A quanto mi raccontavano Goffredo Fofi e Aleksandr Sokurov, i contadini si somigliano tutti. E dal canto mio posso dire di aver fatto quello che è nelle mie possibilità per dare un po’ di voce e di giustizia a questo loro mondo.




