da questa campagna altri abissi di luce e di terra e di anima, niente.
Paolo Conte, Diavolo Rosso
L’opera raccontata è il risultato di una lunga e complessa vicenda progettuale. Prodotto di riflessioni, ossessioni e confronti sulla normativa, i regolamenti e il loro senso pratico non generalizzato, nonché sul significato e sugli effetti concreti di concetti come campagna, patrimonio e paesaggio rurale, tradizione, modernità, la casa oggetto del progetto è stata il luogo fisico dove queste riflessioni si sono sviluppate e accavallate tra loro, anche scontrandosi. Stiamo in fondo alla campagna, su un’altura delle Marche centrali. La casa è stata ricostruita nel 1970 in un’area da sempre a vocazione agricola per condizioni oggettive, prima che il PRG istituisse la cosiddetta zona E, dove oggi ricade. Il sedime pare fosse occupato da un vecchio casolare di cui oggi restano solo i mattoni dei quali era fatto, poi riciclati per riedificarla in nuova forma, nascosti però da uno strato di intonaco cementizio: due volumi scatolari su pianta rettangolare, grande e piccolo, addossati al muro di spina, sotto un tetto a due falde sfalsate con spioventi in aggetto su tutti i lati e coperto da marsigliesi. Tarchiata e poco rifinita, mostrava i caratteri residenziali e le metodologie costruttive dell’epoca.
La casa però, urbanisticamente agricola, stando ai regolamenti locali non faceva parte del patrimonio rurale poiché realizzata dopo il 1950. Inoltre non possedeva né i parametri e pregi architettonici rispondenti ai cosiddetti canoni tradizionali né le caratteristiche dell’edilizia rurale storica: ma il fatto che ricadesse in zona E ha imposto comunque di doverla adattare a quanto indicato dalla LR 13/90. Accolte le richieste della nuova proprietà, il progetto proposto non deride il passato facendone la caricatura camuffando la casa di una pseudoruralità mai posseduta, ma eredita da esso il pragmatismo delle soluzioni costruttive aggiornate dalle nuove tecnologie, attraverso un processodi sottrazione e inversione dei suoi caratteri che ha solo riformato l’involucro esterno ed esploso lo spazio interno – luogo del possibile.
L’architettura cosiddetta rurale era la relazione tra lo scopo utilitario e la forma più idonea a raggiungerlo. In questo stretto rapporto sta il poter essere considerata moderna. Una modernità però superficiale poiché non riguardante gli spazi; visivamente grezza e amatoriale, faceva di certi caratteri ottenuti dal processo costruttivo la sua identità.
Il progetto muove allora da questi invarianti sotto trasformazione, affinati nella loro espressione formale: nella pulizia delle linee e nell’andamento continuo del piano della neo-aia a terra che sale verticalmente per diventare facciata per poi ripiegare, riducendo a zero il cornicione, in copertura a formare la falda ovest, senza soluzione di continuità geometrico-materiale on la pianella di laterizio come elemento base dalla geometria minima; negli infissi incassati nella muratura visivamente ridotti al solo vetro; nella soluzione cromatica del volume est della casa, in cui quel marrone cerca di sfinare la sagoma originaria della casa, sfumandola e fondendola alle ombre prodotte dagli alberi che gli fanno da sfondo.
Ne deriva una casa-paesaggio che tenta di dar spaccio all’ambigua formula dell’ambientamento per lasciarsi contaminare dalle molte sinestesie date dall’ambiente in cui sorge, percepito nonostante tutto come rurale – materiche e immaginifiche, non solo formali e costruttive,
da mettere in forma per trasformarle in narrazione architettonica.
Alcune forme esterne però accennano un lieve dissenso rispetto al rigore geometrico della scomposizione per piani materici e cromatici dei volumi, tradendo un riverbero di ciò che succede all’interno. Come quando si pianta una pianta e dapprima si deve generare la cavità nel terreno, tutto parte da un gesto: la realizzazione del vuoto attorno a cui la casa si riorganizza, convergendo intorno al fuoco-camino che vi sale dentro. Una sorta di cavità domestica allo stesso tempo arcaica e contemporanea. Il campo d’azione del vuoto coinvolge ciò che lo attornia, i parapetti e la scala in corten saldati in loco, alcune bucature che tentano di fuggire dalla loro canonica sede, le partizioni interne che si frammentano e collidono tra loro: lo spazio centrifugo spinge verso l’esterno. Allora si nota che lì rigore geometrico viene meno in piccoli dettagli, come i disallineamenti del rivestimento attorno alle bucature, il pavimento interno che slitta all’esterno, il lucernario teso sghembo al cielo…
All’interno il progetto ricerca una sorta di grado zero abbandonando ogni speculazione teorica per divenire puro gesto fondativo verso uno spazio e un linguaggio architettonico moderno e atemporale, liberato da declinazioni funzionalistiche, dalla retorica del gusto e dal peso del senso, se non questo: generare spazi di vita che, tentando di rompere i limiti della scatola muraria, mettano in connessione l’interno con l’esterno, l’alto col basso, a Terra col Cielo, per sentirsi parte del Cosmo e allo stesso tempo protetti.