Secondo Tullio Pericoli, che di paesaggi se ne intende – vedi la sua mostra in corso ad Ascoli Piceno, Le forme del paesaggio 1970-2018 –, le Marche vanno guardate dando le spalle al mare Adriatico. E precisamente questo è l’orientamento della Casa di confine di Simone Subissati, ultimata lo scorso anno su una collina poco fuori Polverigi, un piccolo paese limitrofo ad Ancona, noto perlopiù per l’Inteatro Festival che vi si svolge ogni giugno.
La pianta rettangolare ha un lato cieco che guarda a est, da dove sorge e batte il sole per tutta la mattina come su ogni abside delle diverse chiese romaniche sparse per tutte le vallate disposte a pettine di questa regione mediana, centrifuga, plurale. “Marche è il nome della regione d’Italia più noiosa, quietamente occupata solo a bastarsi con prudenza” scriveva vent’anni orsono l’anconetano Geminello Alvi e per questo è quasi un miracolo la costruzione di questa casa sulla collina, di certo è un’apparizione. Da troppi decenni infatti ci siamo abituati alle mediocri costruzioni dei geometri che hanno affiancato o preso il posto delle vecchie case coloniche in mattoni e in pietra locale (arenaria all’interno, calcare sulla costa), come se non ci fosse alternativa: di qua l’architettura vernacolare, di là la modernità nella sua versione più rozza e sbrigativa realizzata senza mai ricorrere agli architetti. L’architettura come professione, qui come in molte altre parti d’Italia lontane dai grandi centri, è poco considerata e anzi vissuta come un ostacolo in fatto di lavori pubblici, o si è visto bene anche nell’annosa ricostruzione dagli ultimi terremoti del 2016 dove gli amministratori marchigiani affiderebbero il progetto direttamente alle imprese di costruzione, se solo potessero, in ogni caso gli preferiscono ingegneri e geometri.
E si vede.
Nonostante questa condizione precaria, Subissati ha trovato la sua occasione all’età di cinquant’anni, mettendosi comunque in ascolto verso il suo contesto: la Casa di confine usa due colori diffusissimi fra le case nuove tirate su dagli ex o post mezzadri, il bianco e il ruggine. Se però il volume della casa possiede i netti confini del parallelepipedo sormontato dal volume del tetto a spioventi asimmetrici, l’azione progettuale di Subissati è fatta di tagli e sottrazioni dello stesso volume, definito più attraverso i vuoti che i pieni. Avvicinandosi al sito attraverso una delle molte strade di crinale, che sono le più belle e meno trafficate vie di comunicazione della regione, la casa ci appare sempre meno monolitica di quanto ci aspettassimo. La suddivisione fra i due livelli è anche di tipo cromatico, mentre fra le due parti principali dell’edificio c’è un’inversione delle lesene ruotate, sottili come quelle aymoniane: al piano inferiore lungo il volume dell’abitazione, a quello superiore in quello del garage. Al centro resta un vuoto protetto da un diaframma di sostegni che crea un piccolo snodo monumentale grazie alla doppia altezza e alle quattro direzioni possibili, di cui quella meridionale conduce alla piscina a sfioro.
È qui il vero ingresso. Tuttavia la monumentalità resta un’impressione fugace – grazie anche ai riflessi dell’acqua –, perché vista da vicino la casa, commissionata da una giovane coppia di medici con prole, mostra dettagli e materiali che fanno di tutto per contraddirla. Il legno grezzo dei mobili dipinto con una semplice vernice bianca ha un’aria marinara come in un vecchio chiosco di Portonovo (o come a L’Étoile de mer di Cap-Martin di lecorbuseriana memoria, se preferite), il tessuto microforato che delimita la rimessa al secondo piano nella parte del garage, chiusa a scomparti da una zip come una grande tenda da campeggio. Il carattere scarsamente tecnologico della casa, dove peraltro manca l’aria condizionata per sfruttare l’aerazione naturale, la sua scarnificata levità rimanda a uno stile di vita nomadico, transitorio, come se da un momento all’altro potesse spostarsi e ripartire con lo spazio del garage agganciato come un piccolo rimorchio. A molto giova in tal senso la quasi totale assenza di delimitazione del terreno della casa dai campi agricoli circostanti, liberandoci così da quella infernale piaga italica che è costituita dall’infestante orgia di inferriate kitsch e bolsi muretti divisori. La Casa di confine non ha confini fisici con i campi coltivati a grano tutt’intorno, solo concettuali.
È soprattutto in questa inclinazione per il vuoto e per l’architettura concettuale che è possibile leggere tutta l’ascendenza fiorentina di Subissati: fra i suoi professori ci sono stati infatti Remo Buti e Gianni Pettena, seconde file, forse, rispetto ai gruppi fondanti delle neoavanguardie radicali come Superstudio e Archizoom che in breve si conquistarono la scena dell’architettura più sperimentale degli anni ’70. Eppure furono e sono detentori anche loro di quello spirito rivoluzionario e alternativo rispetto al disegno industriale tradizionale, quello cioè di scuola Bauhaus, più grigio e scientifico come si definiva allora.Nei fotomontaggi e nelle arti applicate degli architetti radicali di Firenze, tutti influenzati dal loro “fratello maggiore” Ettore Sottsass e dalla sua idea di “contro-design”, c’era attenzione verso tutti i fenomeni di cambiamento degli stili di vita di allora che inevitabilmente si riversarono in nuove tipologie dell’abitare, del tutto inedite prima d’allora come le discoteche o i camping, appunto, regno di case mobili e comunità temporanee (tende o roulotte) oltre a una grande curiosità prensile verso il mondo dell’arte. I celebri modellini di Superstudio per la Supersuperficie (1971), dove un micropaesaggio veniva moltiplicato all’infinito dai quattro specchi sulle pareti della scatola che lo conteneva, ha un precedente nel Metrocubo d’infinito (1966) di Michelangelo Pistoletto, appartenente alla serie Oggetti in meno, spontanei e contingenti, realizzati per via di levare invece che per accumulazione come fanno gli scultori. Del tutto analoghe sono le profonde finestre quadrate della Casa di confine disposte soprattutto al livello superiore, in grado di schermare dalla luce diretta del sole ma anche di moltiplicare all’infinito il paesaggio arcadico in un gioco di riflessi leopardianamente infinito. Simone Subissati, nato e cresciuto intorno ad Ancona che è storicamente una città di profughi (armeni, greci, ebrei, schiavoni, albanesi…), dunque di gente abituata a convivere con una certa precarietà professionale, è riuscito a dimostrare che anche con materiali semplici come l’abete o il vetro è possibile realizzare architetture sofisticate aperte al paesaggio circostante. E a regalarci un piccolo capolavoro che riluce di speranza.