A guardarlo dall’alto, d’estate, il Misa sembra solo uno dei tanti capillari vitali di una terra disegnata dalle geometrie dei tracciati agricoli, delle colture assetate. Ma a percorrere le sue sponde, il fiume si fa segno marcato, ma poco profondo, piccolo è il letto, breve il suo attraversare ondulato; da ovest ad est tocca Arcevia, Serra de’ Conti, Barbara, Ostra Vetere, Pianello e Casine di Ostra e infine a Senigallia si perde nel mare. Si attorciglia alla fonte tra le gole degli Appennini e arriva all’Adriatico lambendo sponde di pioppi e salici, sambuco e roverella, olmo e biancospino; di gelsi e grani o girasoli, una volta barbabietole e mais.
È spartiacque linguistico tra le aree dialettali settentrionali, influenzate dall’antico linguaggio celtico e quelle meridionali di matrice osco-umbra. Nessun gorgoglio, nessuno scroscio, nessun gocciolare né tantomeno scorrere dell’acqua, sempre poca. silenzioso, quasi assopito, stanco dell’arsura estiva, assetato e prostrato in preghiera verso un cielo accecante, perché questi si faccia sacro e doni un po’ di sollievo all’aria rovente, all’assenza delle ombre, ai colori dalle sfumature dorate e calde, insopportabili. Si sente, il profumo del Misa d’estate, è odore di sterpaglie secche, di qualche ultimo bocciolo succhiato dalle api, odore dell’asfalto che lo insegue parallelo. Il Misa è un filo che raccoglie a sé, dall’Appennino al mare, gli uomini di quei paesini in una convivenza amata e temuta, scelta un tempo e ora rammarico. Un amore difficile.
Il Misa è un fiume torrentizio. Il 15 settembre piove, a monte, acqua incalzante e tenace, presagio di un risveglio furibondo. A valle il cielo si fa piombo, brontola per ore, si illumina di baleni e saette e profuma ancora a tarda sera d’acqua e di speranza. Non piove, ma il Misa già corre, beve senza dissetarsi, si gonfia e urla. È la sua voce ad arrivare per prima nella valle già buia, dove non c’è più tempo per correre via. Complice la notte travolge la geografia conosciuta, bagna i piedi e i corpi, i campi e i sambuchi, terre, forme e colori, animali, piante e uomini. Il mattino dopo tutto è creta.
A guardarlo dall’alto adesso, il Misa, i girasoli e il grano, le sterpaglie secche, le case sono fango, una palude grigia dall’odore nauseante. Ora le sue acque scrosciano, gocciolano e gorgogliano. Non è arrivato l’autunno, né l’inverno, ma il disastro e il lutto, poi è tornato il silenzio. Il torrente diventa incisione profonda, ferita e poi cicatrice, in un paesaggio oltraggiato nel tempo dal quale si è sottratto e preteso troppo e che ora offende.