Racconti

Un’intervista impossibile a Luigi Cristini

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Quando ha scoperto il suo interesse per l’architettura?
Da ragazzo avevo molta attitudine per la composizione artistica: disegnavo bene, dipingevo, facevo sculture e collage e ho partecipato a molte marguttiane ed extempore di pittura in giro per la regione. Così, terminato il liceo, ho ritenuto che se avessi coltivato anche gli aspetti tecnici, sarei diventato un bravo architetto. Mi sono iscritto alla facoltà di Ingegneria, prima con un gruppo di amici a Roma, poi a Pisa e a Napoli.

E così l’architetto Luigi Cristini è nato in realtà da studi ingegneristici?
Neanche per idea! Terminato il biennio propedeutico ho capito come la formazione dell’architetto fosse anche molto altro. Ho lasciato ingegneria e mi sono finalmente iscritto alla facoltà di Architettura di Firenze; lì ho capito che quello era davvero il mio mondo.

Com’è stata la sua esperienza nella Firenze di quegli anni?
Beh, a Firenze devo moltissimo: in primis lì ho conosciuto Virginia, anche lei matricola di architettura, che poi è divenuta mia moglie. A Firenze ho trovato un ambiente intellettualmente vivace; la città era guidata in quegli anni dal sindaco Giorgio La Pira, alla Facoltà di Architettura c’erano docenti del calibro di Alberto Libera, Giovanni Papini, Ludovico Quaroni, Leonardo Savioli, Gillo Dorfles. Architettura era una grande famiglia: Giuseppe Gori, ad esempio, ci invitava spesso a casa sua. Suonavamo il campanello, lui diceva alla moglie di tirarci giù un costume e andavamo a nuotare insieme nella sua piscina. A Firenze ho anche trovato un gruppo di amici, divenuti poi colleghi, con i quali è nata un’amicizia duratura. Tra le tante cose che ho fatto in quegli anni c’è anche la guida di un’occupazione universitaria avendo come segretario Massimo Teodori: protestavamo per le questioni relative al valore legale del tiolo di laurea. Risultato: sono stato diversi giorni incatenato a un termosifone e ho avuto un agente della Digos alle calcagna per qualche mese.

Piazza del Popolo San Severino, 1959
disegno
Acquarello, 1963
Campanile di San Domenico San Severino, 1958
collage

Si racconta della sua tesi di laurea come un evento sbalorditivo. Cosa ha combinato?
Il relatore era Adalberto Libera, uno dei padri del razionalismo italiano, uno di quelli che con il “Gruppo 7” ha contribuito a scrivere alcune pagine di storia dell’architettura italiana del secolo scorso. Uomo coltissimo ed elegante, della più autentica mentalità razionalista, aveva studiato nei minimi aspetti l’ergonomia degli spazi per ottimizzarne la progettazione nella purezza delle linee e nella sincerità strutturale. Nonostante ciò, volle mettere il suo suggello su quanto di meno razionale, forse – architettonicamente parlando – gli era capitato di vedere: la mia tesi di laurea. Aveva molta stima di me e capii che, in fondo, la intese un po’ come una sfida con sé stesso e con la propria granitica razionalità.

Perché mai? Cosa aveva di non razionale questo suo lavoro?
La mia proposta progettuale consisteva in una provocatoria esasperazione del brutalismo architettonico: avevo ideato un convento domenicano costituito sostanzialmente da un cubo di venticinque metri di lato, all’interno del quale erano ricavati spazi cellulari di diverse dimensioni in relazione alla loro funzione e privi di qualsiasi spigolo. Erano collegati verticalmente da una scala elicoidale che terminava sul tetto con un pozzo di luce aperto sulla copertura in un grande elemento troncoconico, la cui curvatura seguiva l’andamento delle rampe. Si trattava di un blocco monolitico in calcestruzzo alveolare, una sorta di grande scultura abitabile posta in un luogo in quegli anni incontaminato della Valle dei Grilli, a pochi chilometri da San Severino Marche. Un sicuro cortocircuito deve essere avvenuto nell’animo razionale e rigoroso del mio relatore, il quale però mi lasciò libero di fare; l’unica premura fu quella di inviarmi a suo nome dall’ingegner Riccardo Morandi per avere un suo parere sulla effettiva staticità dell’edificio. Alzando le mani, l’illustre strutturista ammise che un edificio del genere non fosse assolutamente calcolabile; egli, in maniera del tutto empirica e in base alla sua lunga esperienza, ne certificò tuttavia l’efficacia strutturale.

Il progetto aveva dunque superato l’ultima revisione e poteva essere presentato alla commissione di laurea? È vero che ci furono difficoltà per portare i materiali a Firenze?
Il parere di Morandi costituì il via libera alla presentazione. Da quel momento iniziai a lavorare alla realizzazione dei disegni definitivi, delle relazioni, dei plastici, e di alcune sculture che avevo pensato per quell’edificio. Lavorai insieme ai miei compagni d’università, con Virginia, e con un nutrito gruppo di amici settempedani, tanto che la mia tesi di laurea mobilitò e tenne al lavoro una decina di persone per diverse settimane. Gli elaborati che ne scaturirono, alcuni voluminosi e pesantissimi perché realizzati in creta, furono raccolti e portati a Firenze con un “OM Leoncino”, un camion che mio padre – grossista di generi alimentari – utilizzava per le consegne della merce. L’illustrazione della tesi ebbe un successo strepitoso, che valse al mio lavoro la lode, la dignità di pubblicazione e a me – cosa che non succedeva da decenni a Firenze – il bacio accademico del preside della facoltà Raffaello Fagnoni. Ne scaturì anche la proposta di trasferirmi per un dottorato al Mit di Boston, ma decisi di non andare, perché questo avrebbe completamente stravolto la mia vita e io ero determinato quanto prima ad iniziare l’attività professionale.

La sua vicenda universitaria ebbe quindi fine in quel momento?
Non esattamente. Libera mi volle suo assistente e, quando si trasferì a Roma, passai alla cattedra di Giuseppe Gori, per poi occuparmi, nell’ultimo periodo fiorentino fino al 1969, del corso «Visual Design» con Leonardo Ricci. La mia frequentazione di Firenze andò via via allentandosi, perché avevo iniziato a esercitare la libera professione e, nel frattempo, ero stato incaricato della cattedra di disegno all’Istituto tecnico industriale di San Severino. Dal 1964 avevo anche iniziato a lavorare con quello che sarebbe diventato il mio collega e socio di studio, Paolo Castelli, con il quale fondai nel 1969 il “Gruppo Marche”, primo gruppo interdisciplinare di progettazione delle Marche, forse tra i primi in Italia, ancora oggi in piena attività. Il nostro primo lavoro insieme fu l’asilo nido di San Severino, che oggi senza motivo e con mio gran dispiacere, rischia di essere abbattuto.

Plastico di studio vista prospetto
Plastico negativo con solidificazione vuoti
Scorcio dal basso
Plastico di inserimento
Edilizia Moderna, piante e plastici, 1963
Luigi Cristini
Asilo nido OMNI, San Severino Marche
1964

Lei è stato un professionista poliedrico, ma l’architetto non è solo chi progetta edifici, non è vero?
Certo che no! Da qualche anno il Consiglio Nazionale della nostra professione ha sentito la necessità di separare i principali campi nei quali si esplica la nostra professione: architetti, paesaggisti, pianificatori e conservatori, ma per i tecnici della nostra generazione declinare queste specializzazioni non era stato mai necessario, noi eravamo, in teoria, preparati a fare tutto.

Allora, in base a questa suddivisione, in quale delle odierne categorie si collocherebbe? In quale campo sente di aver dato il maggior contributo intellettuale?
La progettazione architettonica mi ha accompagnato per tutta l’attività, l’ho sempre intesa nella libertà che la dovrebbe contraddistinguere, talvolta forzando, secondo scienza e coscienza, alcune idee dei miei committenti. È forse nell’attività di pianificazione, non solamente a livello urbanistico, ma, direi, alla scala territoriale, che sento di aver portato il mio contributo intellettuale più originale. Questa attività si integra strettamente con quella che è stata sempre un’altra mia passione, ovvero la politica. Con un gruppo di colleghi e amici elaborammo un modello di assetto territoriale per le Marche che chiamavamo «Città Regione». Questa elaborazione intellettuale l’abbiamo teorizzata e divulgata sulle pagine di una rivista, da noi fondata e pubblicata per quattro anni, che si intitolava «Marche 70».

Cos’è la «Città Regione» e a cosa mirava?
A metà anni Sessanta, insieme a Guido Bianchini, Giancarlo Castagnari, Paolo Castelli, Adriano Ciaffi, Vittorio Massaccesi e altri avevamo preso coscienza della preoccupante tendenza allo spopolamento dell’entroterra marchigiano. Eravamo soliti usare la metafora che le Marche montane e collinari fossero come un gelato che si stava sciogliendo e scivolava verso il mare. Il sistema agricolo mezzadrile era in crisi, la regione guardava a uno sviluppo industriale ritenuto allora più moderno e la popolazione migrava dalle aree interne verso la costa, dove le infrastrutture facilitavano l’insediamento delle fabbriche. Città Regione era lo slogan che riuniva in sé un complesso di strategie di pianificazione territoriale tese ad arrestare o, almeno, mitigare questo fenomeno, proponendo un assetto del territorio regionale omogeneo. Alla base di tutto consideravamo che ci fosse la necessità di una più equilibrata infrastrutturazione: in quegli anni si progettava l’autostrada Adriatica e la nostra proposta – evitando di ripetere l’errore già fatto anni addietro con la ferrovia – era di non costruirla a ridosso della costa. Arretrandola di alcuni chilometri si sarebbe potuta preservare l’area litorale e questa nuova via di comunicazione avrebbe portato il suo vitale apporto in un territorio più vasto, che si distendeva simmetricamente al di là e al di qua del tracciato. In secondo luogo la regione si sarebbe dovuta dotare di una strada pedeappenninica da nord a sud dell’intero territorio che avevamo definito «Pedemontana». Una via simmetrica, rispetto alla catena montuosa, della consolare Flaminia, strada che è sempre stata il collettore viario principale delle Marche seppure abbia il proprio tracciato quasi completamente in Umbria. In terzo luogo c’erano i «Comprensori», ovvero aggregati di comuni, che avrebbero dovuto consorziarsi per condividere alcune funzioni principali, affinché queste fossero sostenibili e, al tempo stesso, di qualità.

Per Comprensorio si deve intendere qualcosa cosa di simile alle Unioni di comuni di cui tanto si parla?
Sostanzialmente sì, purtroppo con oltre cinquanta anni di ritardo si è tentato di chiudere l’ovile quando il gregge era già fuggito.

La Politica dunque non aveva capito?
La maggior parte di noi erano nati politicamente nella DC: ci definivano «i Kennediani». A Firenze mi ero nutrito delle idee progressiste di Giorgio La Pira e tutti noi guardavamo con grande speranza alla positiva stagione che vedeva aprirsi un dialogo tra Kennedy e Krusciov. Erano gli anni di Martin Luther King, dell’enciclica Pacem in terris di Papa Giovanni XXIII e delle prime timide aperture all’Occidente del regime maoista, in parte dovute alla felice intuizione di Amintore Fanfani di usare lo sport come ambasciatore nel dialogo. Ma la DC, soprattutto quella marchigiana – da sempre conservatrice e legata indissolubilmente ad alcune associazioni di categoria agricole – aveva l’interesse a mantenere lo status quo e, con questo, fidelizzare l’elettorato. Grazie al nostro impulso, riuscimmo a far inserire la logica dello sviluppo per comprensori nello statuto della Regione Marche, ma fu la trovata gattopardesca dei potentissimi della corrente dorotea a far sì che tutto rimanesse come era.

Della «Città Regione» cosa resta oggi?
Lo schema che avevamo previsto, o meglio, le aggregazioni di comuni da noi ipotizzate per definire gli ambiti ottimali e omogenei di sviluppo sono state in parte riprese come traccia per delineare i confini delle Comunità Montane e degli ambiti delle Usl dopo la riforma sanitaria del 1978, ma tutto il resto, ovvero l’istanza di condividere istituti scolastici, aree per infrastrutture produttive, aree per impianti sportivi e strutture sanitarie in bacini tali che i servizi si potessero rendere all’altezza delle aspettative e allo stesso tempo sostenibili, si scontrò con la voglia di ottusa conservazione del potere e condizionata dall’inguaribile campanilismo delle nostre comunità. Ancora oggi, dopo l’ultimo sisma, ogni piccolo comune reclama la propria scuola elementare, che presto, come si è visto, non avrà più insegnanti e, temo, neanche alunni… L’ Autostrada adriatica, lo sappiamo, è un nastro che corre sull’orlo della regione, la Pedemontana, un ectoplasma dell’idea iniziale, realizzata oggi per un solo tratto e in una forma anacronistica con una sola corsia per senso di marcia. Ha le caratteristiche di una piccola strada per fluidificare il traffico locale e non il respiro di una grande arteria interregionale. Tutto questo sta a testimoniare la mancata adozione di una politica che mirava a realizzare un assetto territoriale omogeneo, fornendo un argine allo spopolamento. Le Marche sono oggi una lunga conurbazione adagiata sulla battigia, quasi senza soluzione di continuità, con i problemi che ciò determina e che sono sotto gli occhi di tutti. Negli anni Sessanta la tendenza si poteva invertire, oggi paghiamo care le conseguenze di non averlo voluto capire.

Luigi Cristini al Gruppo Marche, 1976
Flash mob di “Quercia Amica”, 1972
“Quercia Amica”, tessera
Luigi Cristini, 1974
Cristini, anni ‘80

Il suo nome viene spesso associato al traforo di Passo Cornello, tra Fiuminata e Nocera Umbra.
La logica dello sviluppo territoriale equilibrato, che, come le ho spiegato, era la base del concetto della Città Regione presupponeva uno sviluppo equilibrato delle valli marchigiane le quali, come gli spazi vuoti tra i denti di un pettine, si sviluppano dall’Appennino al mare Adriatico in direzione ovest-est. In questa logica la valle del Potenza, con il traforo del Cornello, avrebbe avuto un collegamento più agevole e a quota più bassa con la via Flaminia e, quindi, come già detto, con il principale collettore viario verso occidente della zona montana. La politica – come spesso accade – ha strumentalizzato la questione, riducendola a banale competizione tra le valli del Potenza e del Chienti, usando questa artificiosa contrapposizione per fini opportunistici e in maniera demagogica. Il traforo, iniziato 1993, è rimasto un’incompiuta per il fallimento di una delle imprese che si erano aggiudicate l’appalto con un ribasso verosimilmente troppo elevato (queste dinamiche sono diventate chiare a tutti dopo Tangentopoli). L’impresa fallita non è stata mai sostituita, l’Anas ha dirottato quei fondi per altre opere nel silenzio totale degli amministratori di ogni livello, locali e nazionali. Particolare responsabilità in questo caso è in capo a quelli di una valle, quella del Potenza, che oggi ha perso ogni prospettiva di rimanere al passo con le altre. È notizia recente dell’ennesimo tentativo di rapina delle pur esigue risorse idriche del bacino idrografico relativo, per andare a servire quelli delle valli attigue. Qualche mese fa si è riparlato di un ipotetico ammodernamento della strada 361 Septempedana e dell’apertura di un nuovo casello alla foce del Potenza, ma, da quanto si è letto, si tratta di un’arteria che nasce già vecchia che, cosa assurda, non si connette alla via Flaminia.

Oltre a questo suo impegno per la viabilità su ampia scala, molti ricordano la proposta sua e di Paolo Castelli per risolvere la problematica dell’accesso al centro storico di Macerata.
Io e Paolo, con la proposta della cosiddetta “Strada nord”, ci siamo battuti per dare al capoluogo di provincia una viabilità e dei parcheggi che facilitassero l’attracco pedonale al centro storico. La proposta comprendeva la realizzazione di una circonvallazione a valle delle mura nord della città, di un parcheggio sotterraneo e di una risalita meccanizzata che, con un ascensore, avrebbe portato gli utenti direttamente nel cortile del Palazzo del Governo in Piazza della Libertà. La proposta prevedeva altresì il rovesciamento di Rampa Zara e la realizzazione di un capolinea per le autolinee nello spazio che ne sarebbe risultato libero. Tutto ciò era in evidente contrapposizione con le direttive del cosiddetto «Piano Piccinato», le cui previsioni, in particolare per quanto concerne la crescita demografica della città, sono risultate in gran parte errate. La maggiore opposizione venne dall’allora pri, partito che ha avuto sempre un enorme peso nell’amministrazione della città, non giustificabile se si considera solamente l’esiguo peso elettorale. Oggi, a distanza di anni, quelle idee vengono sporadicamente rispolverate, anche se si è perso il quadro organico della proposta che ormai non sembra più attuabile. La città sembra animarsi ormai solo in occasione dei chiassosi eventi notturni universitari e per la stagione lirica dello Sferisterio, che stava così a cuore al mio amico Davide Calise.

Con il suo collega Castelli avete anche condiviso delle battaglie per l’ambiente, il paesaggio e per il patrimonio culturale.
Agli inizi degli anni ’70, facendo una proiezione a dieci anni dei contratti in essere delle Ferrovie dello Stato con le segherie marchigiane, emergeva che nelle campagne delle Marche non ci sarebbe stata più una quercia adulta. Fondando quindi l’associazione chiamata «Quercia Amica», con sede nel nostro studio a Villa Potenza, cercammo di porre all’attenzione pubblica la necessità di opporsi alla decimazione dell’albero più rappresentativo del paesaggio collinare marchigiano. Per fare un gesto eclatante rimanemmo incatenati alla celebre “Quercia Bella” di Passo di Treia per due giorni e due notti, visto che era destinata ad essere abbattuta in breve.

Dunque siete stati ambientalisti ante litteram: quale fu risultato?
La Quercia Bella, seppur recentemente mutilata da un fulmine, è ancora lì. Nel 1974, per conto dell’ufficio programma regionale della Dc, lavorai alla legge di tutela della flora marchigiana, una delle prime in Italia. Devo all’amico che gestiva il bar al piano strada del palazzo della Provincia di Ancona l’essermi salvato da una spedizione non troppo amichevole di alcuni titolari di segherie: mi avvertì che stavano aspettandomi da ore e mi fece uscire dal retro del bar. Dopo qualche tempo seppi che erano stati imbeccati da un mio collega di partito, noto sindaco di un comune interno maceratese, ovviamente della corrente dorotea. A lui è stata recentemente anche intitolata una delle aule del palazzo dove si riunisce il Consiglio Regionale. Per questa mia attività, Legambiente mi ha inscritto nel proprio «Albo degli Eroi dell’Ambiente». Qualche anno fa, nel 2004, denunciai per primo, apertamente sulla stampa, il tentativo di prosciugare il basso corso del fiume Potenza con la deviazione delle acque in parte nel bacino di Castreccioni, in parte nell’acquedotto del Nera. La storia, come abbiamo visto, si ripete ancora … Scoprimmo che, per dimostrare che il prelievo di acqua previsto non avrebbe ridotto troppo la portata del Potenza, nella relazione d’impatto ambientale si era fatto il raffronto con i volumi d’acqua rilevati nel 1929, anno del famoso nevone. I maggiorenti locali, nel frattempo approdati al Pd, si adoperarono in tutti i modi per tentare di salvare il progetto, ma la sollevazione popolare, delle associazioni ambientaliste e la decisa presa di posizione del sindaco di Pioraco ne decretarono l’archiviazione.

Sappiamo delle sue battaglie con “Italia nostra”. Cosa ci dice del Teatro Feronia di San Severino?
Paolo Castelli era presidente provinciale di Italia Nostra, che negli anni ’60 e ’70 era l’associazione maggiormente impegnata in campo nazionale per promuovere una cultura della salvaguardia del patrimonio storico artistico e naturale. Sono stati anni di grande attività in iniziative e convegni, che hanno aperto la strada a una sempre maggiore consapevolezza della necessità della tutela. Il mio impegno in questo campo inizia quando ero ancora studente a Firenze: con mio fratello Giancarlo, a nome di mio padre Alfredo e altri condomini, denunciammo e facemmo fallire il tentativo di abbattere il Teatro Feronia nella piazza di San Severino. Avrebbe dovuto essere sostituito da una sala cinema per 1200 spettatori con sopra un albergo. Guidammo la cordata che, il 4 novembre 1963, portò al voto unanime dei condomini per la donazione del teatro alla città di San Severino con l’obbligo di restaurarlo e metterlo a disposizione della cittadinanza.

Poi la vicenda come si è conclusa? Il teatro fu risparmiato?
La vicenda si è chiusa nel 1963 con la donazione del teatro alla città di San Severino Marche, che assunse l’impegno previsto dai condomini. Il teatro – contemporaneo allo Sferisterio di Macerata – come molti forse sanno, è tra le prime opere dell’architetto Ireneo Aleandri, tuttora in uso e recentemente candidato nella tentative list per l’inserimento, insieme agli altri teatri storici marchigiani, nel novero dei complessi sotto tutela Unesco. Dal 1985, anno della sua riapertura, vi si tengono le manifestazioni cittadine più solenni e un’ininterrotta programmazione annuale di prosa. Uno dei miei ultimi impegni in questo campo, affiancando il circolo “il Grillo” di San Severino, è stato quello di adoperarmi personalmente per assicurare alla città – in virtù dei buoni rapporti con i proprietari – il comodato d’uso per novantanove anni dell’Abbazia di sant’Eustachio in Domora, chiesa rupestre di origine longobarda, con l’impegno che anche in questo caso fosse restaurata e destinata ad uso pubblico. Ciò è avvenuto in seguito a «Salvalarte 2000»; a tal fine i proprietari hanno anche preteso che fossi io con il mio studio a coordinare il progetto di restauro del preziosissimo edificio. Il progetto giace ormai da molti anni, inutilizzato, negli archivi del Comune… chissà che con il Pnrr possa essere ripescato e attuato.

Autodromo di Misano Moto Guzzi c4v – 1925-1986

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