Ho studiato il pensiero e i progetti di Giancarlo De Carlo durante il primo anno della Facoltà di Architettura (1996). L’occasione: una tesina per l’esame di storia dell’architettura contemporanea. “Nelle città del mondo” mi aveva folgorato: il libro che GDC aveva scritto nel 1995 era un racconto continuo, intenso ed emozionale del rapporto tormentato con le città visitate, nel tentativo di sciogliere un intricato groviglio di problematiche antropologiche, architettoniche e urbane attraverso la personale esperienza dei luoghi. Avevo scelto di scrivere la tesina su GDC perché qualche mese prima avevo seguito una sua conferenza, durante il mio semestre sabbatico dopo la fallimentare iscrizione alla Facoltà di Ingegneria. Carico di impeti ugualitari e umanitari avevo viaggiato tra la Bolivia, il Perù e l’alto Cile e, in qualche modo, mi sentivo capace di vivere esperienze urbane con la stessa intensità. Nonostante fossi marchigiano, i miei primi riferimenti visivi dell’opera di GDC non furono gli edifici di Urbino. Scelsi di andare a vederli come tappa finale di un percorso di studio che si poteva concludere con un ritorno a casa. Quindi feci un percorso a ritroso nei territori segnati dalle sue architetture: prima di tutto le case di Mazzorbo, l’Università di Catania, di Pavia e gli istituti di Siena. Il villaggio Matteotti e l’ospedale di Mirano. La colonia Enel di Cervia e la porta urbana a forma di ponte a San Marino. Confesso ora una certa dose di entusiastica esaltazione giovanilistica.
Quello che troviamo in questo numero di Mappe è il tentativo di mettere insieme due racconti diversi all’interno dei quali si (s)compongono altri racconti in un rincorrersi di camere testuali molteplici, tutte basate sulle esperienze e le sensibilità narrative di “visitatori differenti”, chiamati a trascrivere il proprio sguardo emozionale con personale accento su frammenti dell’eredità architettonica di GDC a Urbino.