Forse può sembrare un discorso abusato, che si basa su due categorie logore. Roba da fine anni ’90. Ma con buona pace di Rem Koolhaas e di Mark Koehler, può essere ancora interessante provare a tenere insieme, in un veloce ragionamento sul valore della prassi, qualche strana meteora progettuale marchigiana, sovradimensionata al limite dell’inganno verso il contesto, con piccoli interventi sospesi tra l’allestimento e la dimensione domestica, manifestazioni molto più diffuse nel nostro territorio. Da una parte, lo choc visivo e perturbante di edifici XXL che irrompono nel minuto tessuto urbano e, dall’altra, piccole azioni di disturbo del paesaggio consolidato con la capacità o l’ambizione di costruire relazioni ampie, a-scalari, con mondi lontani, storici e concettuali.
Ebbene sì. Bigness e Smallness, o nella versione meno esterofila ma non certo dialettale, MACRO e MICRO a dialogo. Ben oltre la dimensione fisica, questo confronto non ordinato di progetti ha lo scopo di indicare la possibilità, e anche la forzatura, verso una modernizzazione della pratica progettuale (brutta espressione, ma è ancora la migliore per descrivere la tensione verso un cambiamento di impostazione metodologica).
MACRO è un concetto utile per definire una soglia, che non è solo fisica, oltre la quale non si può più parlare di architettura, un limite che estremizza il valore della dimensione fino a renderlo generatore di un paesaggio oltre-architettonico. Dove l’immagine percepita dell’edificio si amplia al punto di evocare una unità che dovrebbe far riemergere la realtà reinventando il concetto di collettivo.
MICRO si basa invece su un’idea di connessione, multiscalarità e creazione di relazioni leggere, le cui qualità risiedono nella collaborazione definita dalla rete, nella fortuna della mobilità, nella disponibilità della tecnologia orientate verso la definizione di una strategia di rigenerazione fatta di operazioni eversive di agopuntura architettonica.
Guardando la presentazione senza gerarchia dei progetti sembra emergere un dato comune: la necessità di affrancarsi dalla dimensione e trovare relazioni significanti proprio a partire dalla negazione del dato fisico. Piccole case private che sommano culture progettuali lontane, grandi edifici che non celebrano la loro grandezza in faccia al contesto ma cercano di dimostrare al territorio il valore della propria presenza. Edifici che finiscono per usare la dimensione (la grande e la piccola) per costruire un pretesto per sperimentare immaginari possibili, pratiche progettuali meticce.
Provo a mettere in fila.
Partendo dal progetto della CHIP di Camerino, (interessante il ricorso al componente elettronico minimo) il concetto di MACRO come soglia sembra avere un senso solo a partire dal bisogno di collettivo che dovrebbe manifestarsi nell’uso: l’edificio si staglia con una grandezza monumentale e stereometrica contro l’andamento acclive del suolo, usa tutti gli elementi del lessico Bigness (grande scala di accesso, struttura muscolare, involucro continuo distante dai patii interni) per costruire spazi algidi che si limitano a guardare fuori solo per estetizzare la percezione del paesaggio. Ma è un edificio per la formazione, una roccaforte del sapere dal respiro sovralocale, che cerca di chiamare a sé luoghi lontani dal contesto per costruire una comunità.
Cosa diversa il grande ponte di Peccioli, che attraverso una cintura metallica a spirale, che cambia colore lungo il suo sviluppo lineare, sembra voler declinare con ironia il significato dell’infrastruttura e alludere all’idea di conquista della distanza tra mondi da conoscere: il territorio e la città, l’individuo e la comunità urbana… e trovare una sintesi.
E non ultimo il cantiere navale di Pesaro: una invasione formale MACRO, apparentemente sfacciata. La soglia varcata è forse più psicologica che architettonica. Le forme morbide e l’azzurro lucente danno all’edificio l’aspetto dell’onda che si staglia sulla spiaggia e la consistenza del gioco d’infanzia che tutti abbiamo portato al mare. E proprio grazie a questo sconfinamento ironico nella memoria, l’edifico si rende disponibile al paesaggio del porto.
Ora i progetti MICRO, quelli che cercano di trovare la loro ragion d’essere nel legame stretto con il “pezzetto” di mondo che mostrano, nel racconto di una rigenerazione curata attraverso piccoli gesti che sprigionano potenza immaginifica.
Per la casa in vigna di Ostra può sembrare troppo facile riuscire nell’intento di trovare una relazione con il paesaggio: è una piccola casa ricavata da un fienile che affaccia i suoi spazi intimi e domestici verso la campagna. La vigna è lì, a due passi, basta aprire una generosa finestra, grande come lo sportellone che nascondeva il trattore; basta far crescere la vite sulla pergola dalla struttura sottilissima, o scegliere di riusare il mattone del vecchio fienile come trama del paramento murario. Ma allora cosa dire del volume delle camere che scompagina qualsiasi articolazione tradizionale della casa di campagna? E che finisce per determinare l’ampliamento calibrato del vecchio fienile? E poi come far stare insieme i pochi altri segni e oggetti, tutti così felicemente legati a una materia, non astratti, quasi sporcati dal colore? Risposta: un confronto umile (“humble”) e collaborativo tra il progetto e la prassi del costruire, tra il bisogno di memoria del paesaggio agricolo conosciuto e la personalissima rilettura della casa nordeuropea.
Allo stesso modo, anche la casa scura di Civitanova Alta mette insieme due mondi e due culture progettuali: la memoria del luogo, fatto di agglutinazioni volumetriche tipiche dei borghi marchigiani e la fluidità degli spazi della casa giapponese, tenuta insieme dal vuoto del patio che ospita una presenza esterna e non uno spazio domestico, un giardino e non un salotto. E poi la tecnologia che invece di nascondersi (come Soprintendenza vuole), si mostra in pieno accordo con il grigio scuro dei volumi giustapposti.
Toccando meno le corde emotive, chiama a sé orizzonti della memoria del luogo anche il progetto della casa sulle mura di Morro d’Alba, dove la storia del contesto è trattata con una pulizia da manuale, con le composte operazioni di un bravo impaginatore, al punto di dichiarare la crisi della tradizione costruttiva per eccesso di rispetto.
E ultimi, ma non ultimi… i due interventi di allestimento per la Casa Natale di Maria Montessori a Chiaravalle e il MA di Corinaldo. Due episodi diversi ma con il chiaro ed evidente scopo di proporre una prassi progettuale che tiene insieme due dimensioni estreme: il dato MICRO dell’intervento e il valore MACRO della ricaduta narrativa.
Il progetto per Casa Montessori Chiaravalle fa ricorso al valore universale del pensiero della protagonista a cui lo spazio è dedicato mescolando elementi di memoria domestica con matrici astratte, materiali di una tradizione povera con elementi grafici e di design dal lessico internazionale, la tassonomia degli oggetti del metodo montessoriano con la grandezza quasi ideologica della mappa democratica di Buckminster Fuller. Tutto in un piccolo museo fatto di stanze in una sequenza non lineare, basata sulla circolarità tra spazio interno ed esterno, che coinvolge il condominio, la piazza e la rete.
Il MA – Moderna Agorà – nuovo polo culturale di Corinaldo, si propone di costruire un spazio che parla di comunità, che amplifica il valore del ruolo femminile nei percorsi multidisciplinari della conoscenza. Attraverso l’uso di illustrazioni dai toni volutamente pop, una moltitudine di volti femminili, di grandi pensatrici e studiose, popola le stanze dello storico Monastero Agostiniano. Il progetto si configura come una vivace aggressione archigrafica di spazi attentamente recuperati come codice vuole, un racconto gioioso, fatto di cromie che si ispirano alle palette settecentesche rielaborate in forme dal macroscopico valore comunicativo.
In conclusione… un meticciato interessante di esperienze solo apparentemente lontane. Forse l’indice di un nuovo modo di operare senza condizionamenti concettuali? Forse una prassi progettuale che scopre la variazione a-scalare in barba alla dimensione fisica per provare nuovi orizzonti formali? Una modalità sporca, spuria, di trattare i materiali del progetto? Il prodotto di viaggi tra culture, dei ritorni, dello sconfinamento tra discipline? Anche in un contesto difficile e refrattario, dove lo stile moderno e il minimal sono diventati l’ideale diffuso di una sexyness progettuale ormai sfinita, si registrano buone notizie.