La discarica e il buon governo. Le risorse hanno molti nomi, e le più interessanti pratiche contemporanee ci insegnano che la qualità ha molti volti. Peccioli non è solo uno dei borghi più belli d’Italia, ma ha una delle discariche più virtuose, una discarica modello, un sistema integrato di recupero energetico, una factory di cultura contemporanea. Un luogo dove si partecipa agli open day, dove ci si sposa, dove si va in gita come al museo. Economia circolare e risorse per la comunità sono l’output che ha consentito a questa piccola comunità di distinguersi – tanto per i cittadini quanto per gli ospiti che arrivano là. La strategia è chiara, e anche le parole – Belvedere e Fondazione Peccioliper. Tutto chiaro, senza malintesi. Renzo Mascelloni è il Sindaco di Peccioli, l’ispiratore della Belvedere Spa – già nel nome non si allude all’orrore dei rifiuti ma alla metamorfosi che genera e rigenera la vita, la fruizione, l’esperienza.
Con questa lucidità Peccioli è dall’’inizio degli anni Novanta un cantiere a cielo aperto, il centro di una relazione nuova tra arte e progetto urbano, architettura e paesaggio. Primo attore di questo visionario sistema, l’amministrazione pubblica che ha unito rifiuti e futuro, scarto e promessa con processi di innovazione e ricerca per sviluppare il potenziale simbolico e gli immaginari dell’arte contemporanea. L’obiettivo è la costruzione di una cultura dell’abitare ancorata al contesto locale, qui ed ora. L’arte non come manifestazione esteriore, stucchevole e retorico mainstream da esibire, ma l’arte per le comunità di Peccioli, quelle temporanee – curatori, artisti, professionisti delle imprese culturali e creative, architetti – e quelle permanenti – i residenti. Li accomuna un’idea di cittadinanza culturale che condivide progetti e pratiche innovative condivise.
I progetti di arte pubblica disseminati nel territorio come nuove mappe di lettura del paesaggio sono ponti, infrastrutture utili, segni; sono opportunità di nuova e diversa contemplazione – paesaggistica, urbana, architettonica. L’elenco è lungo, e promette di allungarsi – tra gli altri artisti e architetti Patrick Tuttofuoco, David Tremlett, Alicja Kwade, Mimmo Paladino, Domenico Bianchi, Mario Cucinella.
CC – Peccioli è un laboratorio del contemporaneo, un luogo che ha messo insieme il riciclo di una discarica virtuosa con arte contemporanea, architettura e servizi evoluti. Qual è stata la tua percezione di questo contesto?
PT – Quando sono arrivato Peccioli la mia esperienza è stata fantastica. Ho trovato qui un luogo che già si era caratterizzato fortemente per un interesse nei confronti dei contenuti, della ricerca e soprattutto della capacità di trasformare condizioni complesse in una forza, in un valore capace di generare energia per il territorio sia materialmente che dal punto di vista economico. Un contesto incredibilmente fantastico, illuminato. Nel territorio, nella fisionomia del luogo, erano già presenti interventi di altri artisti contemporanei, che testimoniavano radici che risalgono a metà anni ’90. Ho quindi trovato un humus intelligente, ricettivo e soprattutto coltivato alla radice. Tutti i cittadini di Peccioli e le persone che abitavano in aree limitrofe come Ghizzano, e altri piccoli centri erano abituati ad avere nella normalità della loro esistenza urbana, la cultura come elemento fondante, proprio per la presenza delle opere di quegli artisti. Non solo, quindi, esisteva la capacità di acquisire queste informazioni e questi contenuti in maniera positiva, ma si era anche costituito un vocabolario che per quanto semplice, era stato già sviluppato come territorio connettivo, particolarmente ricettivo.
CC – David Tremlett con il muro di contenimento, Daniel Buren, Mario Cucinella, Sergio Staino, le Presenze dei grandi corpi in discarica, e il tuo ponte pedonale: come dialogano tutte queste esperienze autoriali e visive? C’è consapevolezza dl valore nella comunità?
PT – C’è stato un lavoro di preparazione, nel tempo. Una comunità reagisce bene se si inseriscono gradualmente piccoli elementi che costruiscono un vocabolario, anche esiguo, di riferimento, che rende l’arte, i contenuti artistici specifici e la ricerca, un’esperienza della vita all’interno del territorio. Quando sono arrivato e ho avuto la possibilità di intervenire in questo contesto così fertile, questo segno, il mio e il segno di tutti gli altri, si sono inseriti in un coro di eventi che la popolazione era in grado di interpretare, forse non esattamente nel modo in cui io pensavo. Ma quello che conta è generare una possibilità di riverbero dei contenuti, questa è la cosa più importante dell’esperienza di Peccioli. Ogni intervento ha un suo contenuto, una sua storia, un suo messaggio e la poliedricità di tutto questo genera un campo ancora più ampio, più intenso di possibilità di chi vive lì. La forza sta proprio nella capacità di costruire un dialogo con le persone che vivono i luoghi in modo che questi segni non rimangano gesti alieni, astronavi atterrate da un contesto altro, ma diventino elementi della storia, della narrazione del luogo, preparato nel tempo a recepire questi segni, a generare uno scambio con queste forme. In questa logica ogni forma, anche la più disparata, si inserisce in un campo energetico talmente ampio che non può che migliorare l’esperienza dell’artista in senso ampio.
CC – Endless Sunset: perché questo titolo?
PT – Il titolo è una parte importante di un’opera se l’artista vuole dare qualche informazione in più sul suo lavoro oltre la presenza fisica dell’intervento. Il riferimento è in relazione al paesaggio, all’idea emozionante di un tramonto che non finisce mai, di quel momento della giornata in cui si passa da uno stato di attività, di produzione, a un momento di relax e contemplazione. Il passaggio dal giorno alla sera è un momento intensissimo dove queste due frequenze si uniscono, si sovrappongono, in una sorta di transizione morbida in cui l’una entra dentro l’altra. L’idea era quella di evocare in chi passava sul ponte tutto questo. Il lavoro la racconta in tanti modi. Nella scelta della forma a spirale, ma quello stesso pensiero quella stessa idea, quella stessa forma nasce per poter proseguire all’infinito, potrebbe finire lì e proseguire altrove, in un altro paese, quasi giocando con uno spazio-tempo totalmente dilatato, esploso, non lineare. Nella relazione col paesaggio, poiché questa passerella così importante per dimensione – 135 metri, a 30 metri di altezza – si impone per chi cammina dal paese, per chi passa da sotto e vede quella forma che si staglia nel cielo. Per me era importante trovare una modalità semplice per reinserire, riassorbire nell’opera il più possibile il paesaggio o la natura, che è l’elemento sui cui si inserisce la passerella stessa.
CC – Come è nata l’idea della spirale, e la scelta del colore?
PT – Volevo costruire una forma che avesse una rappresentazione spaziale, fisica, del tempo, della sua ciclicità e del suo procedere, una forma esperienziale che si estende per tutta la lunghezza del percorso. L’obiettivo era raccontare cromaticamente una storia, creare una narrazione di fondo, quella del cielo che tramonta, che trapassa dalla luce al buio e in quel frangente ha una trasformazione cromatica incredibile, che ho replicato insieme a un colorista nella modalità della trasformazione di un cielo d’estate. Quei cromatismi li abbiamo proprio spalmati, dipinti – con una pittura fatta a mano, inventata – su tutta la pelle dell’opera partendo da un lato e andando indietro verso l’alto. L’idea di un momento che si dilata all’infinito, con i colori che si porta dietro fino all’ultimo istante è una delle esperienze cromatiche più forti, non solo per la capacità di generare un’emozione e una energia di gioia, ma proprio per la possibilità di entrare in contatto con la sfera cognitiva dell’essere umano che va oltre il concetto, il processo culturale, e piuttosto ha a che fare con sensazioni forti, basiche, dirette.Ecco, questa emozione doveva essere catturata, portata quasi all’infinito e regalata al passaggio di chiunque, poiché in un intervento pubblico l’artista ha una responsabilità in più. Deve trovare una sintesi nella propria ricerca che tenga fede all’essenza e all’evoluzione ma che sia anche capace di “semplificare il segnale”, trovando una frequenza intermedia in grado di dialogare con semplicità ed efficacia con un pubblico che non necessariamente è preparato al contatto con l’opera. Il valore del colore consente di accedere all’emozione a livello inconscio, al di là della preparazione culturale.
CC – Nel tuo lavoro la luce ha sempre avuto un ruolo fondamentale: come si colloca questa esperienza urbana nella tua attuale ricerca e produzione
PT – La luce è un elemento che ricorre fin dall’inizio nel mio lavoro. Quello che mi piace della luce è la sua capacità di raccontare qualcosa di vivo. Si tratta prima di tutto di un’energia che si manifesta a livello tecnico-formale, a livello visivo e percettivo, e poi è un energia fisica che scorre, non un inerte ma una forma viva che ha capacità di mutare. Questo si collega a livello sensoriale, visivo, cognitivo con l’idea di vita, del respiro. La luce è stata importante nella mia ricerca già nella prima serie di lavori verso la fine degli anni ’90, in rapporto alla possibilità di occupare lo spazio pubblico che significa considerare il dialogo con l’altro, rispettare il punto di vista altrui. Questo “altrui”, se veramente esteso a tutto il territorio, è talmente vasto e ampio da metterti di fronte a possibilità incredibili di scambio e di dialogo che tiene in piedi la ricerca artistica, l’arte, il desiderio di accumulare conoscenza, condividere conoscenza, consumare conoscenza. Un ciclo energetico, che continua ciclicamente a ripetersi, il motore che tiene in piedi l’arte. Sicuramente la mia.